di Antonio Errico
Bisogna imparare a disimparare. Così dice Carlo Rovelli, il fisico teorico che recentemente ha pubblicato I buchi bianchi.
In fondo non è un concetto nuovo, perché esprime una necessità costante, che riguarda e coinvolge ogni sfera del sapere.
Era il Settantasette quando Roland Barthes disse che era giunta l’età di un’altra esperienza: quella di disimparare, di lasciar lavorare l’imprevedibile rimaneggiamento che l’oblio impone alla sedimentazione delle cognizioni, delle culture, delle credenze che abbiamo attraversato.
Allora, un fisico e un semiologo si ritrovano nella constatazione dell’urgenza di ribadire e potenziare la pratica del dubbio, di mettere in discussione le certezze, le convinzioni, le forme e le formule con cui si attraversano i territori della conoscenza, di costruire significati ulteriori, che abbiano forse maggiore profondità, forse una fluidità maggiore, di ridiscutere le cause e gli effetti dei fenomeni, le relazioni tra le cose e tra le storie, di attribuire un nuovo senso alle vecchie cose e alle vecchie storie, oppure di recuperare il senso delle vecchie cose per applicarlo, quando ce n’è bisogno, a quelle nuove. Di osservare, leggere e interpretare il mondo con un pensiero nuovo, di individuare connessioni inedite tra gli elementi che lo costituiscono. Di attribuire un nuovo senso agli altri e a se stessi.
In quel bellissimo romanzo filosofico che si intitola Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Robert M. Pirsig scrive: “Viviamo in un’epoca di sconvolgimenti, le vecchie forme di pensiero sono inadeguate alle nuove esperienze. Si dice che è soltanto quando si rimane bloccati che si impara veramente; allora, invece di ampliare i rami di quello che già si conosce, bisogna fermarsi e lasciarsi andare alla deriva finchè non ci si imbatte in qualcosa che consenta di ampliare le radici”.