Storia saffica di Lucistella… di Annibale Paloscia

Nel rievocare i fatti, l’autore segue quel filone della storiografia revisionista che vede vari momenti della storia d’Italia postunitaria dall’altra parte, cioè non più dalla parte dei conquistatori ma dei conquistati. Perché, in effetti, più che di una effettiva unificazione dello stato italiano, si è trattato, come ormai è ben chiaro, dell’annessione, forzata e violenta, del regno borbonico da parte della monarchia sabauda, con tutte le conseguenze negative che poi sono derivate sul piano economico, sociale, culturale, ecc. e che vanno sotto il nome di questione meridionale.

Nelle prime pagine del romanzo sono descritte, in maniera realistica, le abitudini di vita in un paesino del Sud, con un’attenzione tutta particolare, di tipo antropologico, per le leggende, le superstizioni, che hanno caratterizzato la civiltà meridionale e che derivavano probabilmente proprio dalle difficoltà che gli abitanti di queste regioni, appartenenti alle classi più umili, dovevano affrontare quotidianamente.

Su questo mondo arcaico legato a tradizioni secolari, già pieno di per sé di tanti problemi, si abbatte la violenza dell’esercito piemontese, che non rispetta nemmeno donne e bambini e compie una sorta di ‘pulizia etnica’, per usare un’espressione quanto mai attuale, che non è del tutto inappropriato riferire anche, per quanto è accaduto nell’800, al Sud dell’Italia. E qui è abile Paloscia a far notare il contrasto di condizioni esistente tra gli alti ufficiali piemontesi, come il comandante supremo Cialdini e lo stesso capitano Lazzaro Nigra, impegnati in serate mondane nei teatri o in locali alla moda, e i contadini meridionali, vessati ulteriormente da una serie di disposizioni prefettizie, riguardanti le misure di ordine pubblico nei territori interessati all’agitazione filoborbonica, per cui “al povero contadino non restava che scegliere l’albero a cui impiccarsi”. E, a questo punto, il tono del libro si fa duramente polemico nella denuncia di queste disposizioni assurde e disumane.

Al tempo stesso, in questa prima parte, si presentano anche i quattro protagonisti del romanzo, che avranno un rilievo quasi assoluto nella seconda: il capitano Lazzaro Nigra, che comanderà il battaglione dei soldati piemontesi contro Pontelandolfo; l’eccentrica, forse troppo per l’epoca, giornalista inglese Anna Pierce, che confessa apertamente le sue preferenze sessuali al capitano; l’orfana leccese Lucistella, della quale si invaghisce la Pierce dopo averla vista danzare, e Antonio, anzi Antuone, il contadino marito di Maria, una giovane donna incinta che non viene risparmiata dalla violenza della repressione piemontese.

Una componente importante del libro è anche quella linguistica, che ne costituisce, a mio avviso, un’altra possibile chiave di lettura (non a caso alla fine l’avventura dei quattro protagonisti si trasforma in una “ricerca di parole”). Questa componente si rivela in vari modi. Innanzitutto nell’uso del dialetto, con funzione mimetica, soprattutto nei dialoghi (ed è presente non solo quello campano, ma anche il dialetto piemontese, il lombardo e ancora quello pugliese e il “grico” salentino), ma anche nell’uso di certi termini, che denotano .un interesse, o per meglio dire una passione particolare, una vera “vocazione linguistica” di Paloscia, come egli stesi definisce quella di Lazzaro. Tra i vocaboli, di derivazione dialettale, che si trovano nel libro, potrei citare, esempio: gugliata, acurnale, bunnnolo, trocchio, girbino, avantere, zijnili, saccaro, briocca, zampitti, grascito, zubbio, procojo, sinava, ecc. Questo gusto emerge anche nelle epigrafi ai vari capitoli, che sono tratti spesso da canti popolari o da composizioni di poeti dialettali meridionali, come Albino Pierro, Ignazio Buttitta e i salentini Nicola De Donno e Pietro Gatti, il cui dialetto però non è barese, come è scritto, ma quello, particolarissimo, di Ceglie Messapica.

Un altro aspetto ancora di questo interesse per lingua è rappresentato dalla riflessione, per così dire metalinguistica. Si tratta cioè di quei brani, abbastanza frequenti nel libro, nei quali i personaggi e lo stesso narratore riflettono appunto sul senso e sulla suggestione di alcuni vocaboli e in taluni casi, così facendo, attraverso la lingua scoprono rapporti imprevedibili e sconosciuti tra popoli lontani e diversi, come tra campani e piemontesi o tra campani e ladini o tra pugliesi e albanesi. Ed è proprio questa “ricerca di parole” che determina, in fondo, la decisione dei quattro protagonisti alla fine di proseguire il viaggio verso l’Albania e anche oltre, compiendo quindi in senso contrario (e forse questo fatto non è casuale) il viaggio che tanti disperati compiono oggi verso le coste pugliesi.

 Per passare ora alla seconda parte del romanzo, qui viene meno la dimensione storica, corale, che caratterizza la prima parte, e l’attenzione si incentra invece sulle vicende dei quattro personaggi principali, i quali decidono di fuggire dal mondo violento che avevano conosciuto e che ancora comunque li perseguita e di andare alla ricerca di un ‘oltre’ che significa autenticità e libertà e che essi credono di trovare nel rifugio e nel contatto conla natura. Non a caso grande rilievo assumono ora gli splendidi paesaggi del Gargano. Qui, sulla componente polemica e ideologica, prevalgono perciò l’interesse antropologico e la riflessione esistenziale.

In primo piano balzano dunque i destini dei quattro protagonisti, che a un certo punto si intrecciano strettamente, e quasi misteriosamente, tra di loro. La giornalista inglese decide di vivere con Lucistella, ottenendo che le Venga affidata tacitamente in cambio della rinuncia a scrivere sui giornali inglesi delle malefatte di Vittorio Emanuele nel Sud. Il capitano Lazzaro Nigra, dopo essersi perso in un bosco, viene prima colpito con una fionda e poi evirato da Antuone. Soccorso dalle due donne, viene portato con loro e curato. Antuone, a sua volta, che era stato prima vittima e poi carnefice di Lazzaro, alla fine gli salva la vita, ammazzando i due soldati che, dopo aver violentato Lucistella, lo stavanoper uccidere e si unisce agli altri tre.

In queste pagine il personaggio che resta impresso ai lettori è sicuramente quello di Lucistella, che rappresenta la sapienza popolare, la fiducia nella magia, nei rimedi della medicina naturale. È una donna che conosce le leggende sull’origine dei luoghi attraversati, come la storia della grotta dell’arcangelo Michele quella di Pizzomunno.Di grande suggestione è l’episodio della puntura della tarantola, che poi si rivela una messa in scena organizzata da Lucistella per far tornar a Lazzaro il desiderio di amare e quindi di vivere. Questo episodio è preceduto da un capitoletto di natura quasi saggistica in cui l’autore spiega il significato della tarantola nelle tradizioni e nella cultura popolare pugliese.

Ma questi personaggi, come s’è accennato, ha anche un valore simbolico, perché rappresentano mondi e culture diverse che trovano un punto di contatto in un’idea della vita come ricerca dell’autentico dell’essenziale, al di là delle differenze di natura sociale, della loro provenienza, ecc. E qui forse Paloscia vuole fare un’altra allusione alla situazione attuale, a quella società multietnica che si sta così faticosamente formando, mandando anche un preciso messaggio di tolleranza e di convivenza civile.

Il romanzo termina con una lettera scritta da Ann Pierce al fratello Donovan, uno strano tipo di pensatore, che contesta la ragione umana perché allontana l’uomo dall’infinito. In questa lettera la giornalista lo informa dei più recenti avvenimenti, dell’intenzione di proseguire il viaggio della sua “piccola tribù” verso il mare, in direzione delle coste dell’Albania. E proprio alla fine compare l’ultimo dei motivi di quest’opera, il motivo esistenziale, la riflessione sul senso ultimo delle cose, sulla vita e sulla morte. Non a caso viene evocato il nome di Giacomo Leopardi con i suoi pensieri sull’infinito. E ciò non fa altro, in fondo, che confermare la ricchezza e la varietà di spunti e di problemi che presenta il romanzo di Paloscia.

[«Presenza taurisanese», a. XVII, n. 8-9, agosto-settembre 1999; poi in A. L. Giannone, Le scritture del testo, Lecce, Milella, 2004]

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