Se fossero ancora qui e gli si chiedesse che cosa leggere nella giornata della poesia, risponderebbero così: leggete Vittorio Bodini. Leggete la poesia che dice di via De Angelis, di quella strada sbilenca, traballante, dove sembra che possano compiersi tutti i destini, quei versi in cui dice di aver abitato in ogni numero civico, con tutti, con le rondini, coi vecchi che muoiono all’alba in una verde luce d’acquario, con quelli che sloggiano portandosi coi mobili sul carretto i vetri della finestra e l’albero di limone del cortile.
Leggete le poesie che dicono il Sud, risponderebbero. Quindi leggete tutto Bodini.
Ma probabilmente risponderebbero anche così: leggete Vittorio Pagano. Quelle poesie che dicono di cattedrali, maschere, putti, che dicono gli inverni, la madre, gli incubi, la terra, le sirene negli occhi, i miti abbandonati, i sortilegi spenti, i suoi fantasmi tanto protetti, tanto amati. Leggete le sue poesie d’amore. Quindi leggete tutto Pagano. Così risponderebbero. Direbbero di leggere i poeti del Sud: quelli che disegnano con le parole paesaggi immateriali, favolosi, magici, figurazioni liberate da ogni concretezza di tempo e di spazio, l’incantesimo di una luce strabiliante, quella luce che è come un’altra bestia sulle case da aggiungere al bestiario la cui favola sa di sputi e minacce.
Quelli che raccontano il morso della tarantola, l’assedio dei turchi, l’incantesimo delle case di tufo nella grande pianura, lo splendore barocco immutabile come una perfezione assoluta o come un carnevale di pietra che simula in mille guise l’infinito, il delfino che ha in bocca la mezzaluna, i campanili che sfogliano le ore.
Direbbero: leggete quei poeti che si chiamano Girolamo Comi, Nicola De Donno, Bruno Epifani, Vittore Fiore, Donato Moro. Poi leggete quei narratori che si chiamano Giovanni Bernardini, Maria Corti, Luigi Corvaglia, Aldo De Jaco, Rina Durante, Fernando Manno.
Perché loro hanno testimoniato la condizione di una terra legata a nodo stretto al passato e, allo stesso tempo, protesa verso l’orizzonte di un’epoca nuova che le si stagliava davanti. Ma soprattutto hanno raccontato l’esperienza dell’uomo di questa terra, sospeso tra un richiamo malinconico, un impulso viscerale di restare a vegliare la casa, e il desiderio prepotente di andare via lontano, di oltrepassare i confini segnati con il sangue di antichi affetti.
Davvero non saprei dire che cosa risponderebbero Antonio Verri e Totò Toma se dal luogo dove sono potessero dire che cos’è la poesia. Forse il primo direbbe che, in fondo, non è altro che un correre continuo verso il solito albero d’oro, verso il solito vecchio profumato eldorado. Oppure direbbe che non è altro che il sibilo lungo, l’espansione di un fiat originario, il lievito di un’idea irrinunciabile, l’eco di un incipit insostituibile, il senso di una bellezza della terra che rivela la sua anima. Forse l’altro risponderebbe, semplicemente, che poeti si nasce e a volte non si finisce.
Davvero non saprei dire che cosa direbbe Vittorio Bodini. Forse direbbe che la poesia è un pappagallo dalle penne oro e verdi e una mania di contraddire. Oppure direbbe che è un sogno che passa sulle pianure del Sud. Rapidamente. Una volta sola.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 21 marzo 2023]