In tempi ancora più recenti, in questa direzione si è mossa anche la ricerca di base sul territorio salentino, offrendo alcuni contributi all’arricchimento del complesso e articolato affresco[5]. In esso, generalmente caratterizzato dal disagio professionale e dalla marginalità sociale, non mancano tuttavia profili che si discostano dai modelli prevalenti: insegnanti impegnati nella politica, tesi a dare continuità tra questa e la missione didattica, nel comune segno della emancipazione delle classi umili[6]; maestri dediti alla riflessione partecipata delle proprie esperienze attraverso una proficua attività di scrittura pedagogica e di incontri di formazione e/o di celebrazione, allo scopo di disseminarne i risultati[7]; figure magistrali apprezzate per il competente zelo nel lavoro in classe – come possiamo apprendere dalla documentazione amministrativa – ritenuto meritevole di (modeste) gratifiche stipendiali e di ufficiali attestazioni di lode[8]. Lo scandaglio rivolto alle microstorie di insegnanti nelle comunità di riferimento, sia attraverso la consultazione degli atti burocratici che testimoniano il travagliato rapporto docenti – Amministrazioni locali[9], sia utilizzando le (rare) fonti rivelatrici del lavoro pedagogico – didattico svolto dai docenti stessi[10], ha tracciato interessanti piste di lavoro, che via via rafforzano la necessità di una circostanziata analisi delle problematiche didattiche mediante l’uso di documenti più attendibili rispetto ai programmi nazionali, ai dati ufficiali e alle scritture burocratiche (con i quali tuttavia vanno incrociati).
Un ambito tuttora aperto inesplorato è quello relativo all’attività pubblicistica svolta dagli insegnanti salentini, cui finora è stato dedicato un sintetico ma vivace panorama[11]. Accanto alle scritture di servizio (piani di lavoro, relazioni di fine anno, proposte di acquisti, ecc.), non sono rari, a fine ‘800, i docenti che danno alle stampe produzioni di tipo eterogeneo, a finalità moraleggiante o specificamente didattica, rivolte non solo ai colleghi o al pubblico acculturato, ma anche all’utenza infantile e giovanile. Tale attività non appare quindi, in un’ottica retrospettiva, solo come una dilatazione in senso sociale della professionalità magistrale, ma anche, e soprattutto, come una catarsi intellettuale e morale indotta dalla scrittura.
Come è noto, nella seconda metà dell’Ottocento – particolarmente dagli anni ’80 – si incammina e si sviluppa, anche nel panorama editoriale italiano, una letteratura pedagogica finalizzata alla estensione in senso popolare dei valori nazionali e borghesi fondanti del Risorgimento[12]. Si assiste in effetti, da parte dell’intellighenzia allineata alla classe dirigente (ossia la quasi totalità), ad uno sforzo teso a sostituire, alla tradizionale e (ancora) dominante morale cattolico-popolare, un codice di comportamenti individuali e sociali, conformi al programma di costruzione identitaria di un giovane Regno non ancora divenuto nazione. Il tanto letto, e tanto discusso, Cuore del De Amicis, edito nel 1868, rappresenta il più riuscito lavoro di questa operazione, fino ad assumerne un valore esemplare, da qualunque visuale interpretativa lo si voglia considerare[13].
Il progetto presentava difficoltà notevoli: intanto presupponeva un’alfabetizzazione, se non completa, almeno molto diffusa, presumibilmente nella popolazione in età scolastica – frutto delle politiche avviate all’indomani dell’Unità – quindi la disponibilità economica e mentale alla costruzione di una piccola biblioteca personale, che andasse oltre i manuali scolastici; doveva inoltre mettere in conto la possibile ostilità del clero ad ammettere la circolazione codificata di morali, se non alternative, comunque concorrenti di quella cattolica, sia infine la resistenza diffusa ad accettare la legittimazione di un potere lontano e avulso dalla realtà quotidiana e popolare.
A questi problemi andava aggiunta ancora la problematica, più squisitamente tecnica, della veicolazione dei nuovi valori in una veste, in un linguaggio e secondo modalità accattivanti della simpatia infantile e adolescenziale, destinataria dell’investimento educativo. Questo tipo di manualistica poteva far riferimento ad alcuni precedenti: i manuali di buone maniere ad uso delle giovinette e dei giovinetti, di matrice umanistico-rinascimentale[14]; la letteratura agiografica, devozionale ed edificante, attivata sin dall’Antico regime[15]; la libellistica dei catechismi rivoluzionari, in voga nelle repubbliche giacobine[16]; la produzione nazional-popolare educante sui temi patriottici, transitata dai confini d’Oltralpe al nostro Paese[17].
In tale contesto si inserivano vecchie e nuove querelle, quali quella, d’altronde mai completamente sopita, relativa alla lingua da adottare per l’uso nazionale, o come il più recente attacco condotto dagli intellettuali positivisti contro il cattivo romanzo[18].
2. Un De Amicis leccese?
L’ambiente della cultura scolastica leccese, per quanto marginale ai grossi circuiti editoriali nazionali, non rimane estraneo a questi temi e a queste esigenze: il libro che in queste pagine viene presentato ne è la testimonianza più fortunata, almeno a giudicare dall’apprezzabile successo cui andò incontro. L’autore, il conte Aristide Guidotti (1858-1926), maestro, pubblicista, collaboratore del bisettimanale leccese La Voce del Popolo (di orientamento liberal-democratico), si impone alla nostra attenzione per il suo attivismo e per la sua generosa militanza pedagogica. La sua scelta professionale suscita curiosità, in relazione alla sua origine aristocratica, piuttosto rara nella sociologia del ‘pianeta docenti’, solitamente caratterizzato da una prevalenza piccolo-borghese: non sappiamo se dovuta a un’effettiva vocazione o a circostanze di altra natura. Le informazioni reperite sul suo conto ci fanno propendere comunque per una rappresentazione ‘impegnata’ del personaggio: oltre che come insegnante, è segnalato come redattore capo de L’Educatore Salentino[19], periodico bimensile (scientifico – letterario – didattico), ritenuto come una tra le testate pugliesi di settore di maggior rilievo. Lo fonda il prof. Giorgio Castriota Scanderbergh, docente di Pedagogia presso la Scuola Normale di Lecce, il quale intende suggerire agli insegnanti elementari “solo gli aiuti necessari e bastevoli a indirizzarli, senza snervare la loro attività, [senza] crederli ignoranti bisognevoli perfino delle parole da dettare ai loro bambini. Come pure ne propugna la dignità senza illuderli con mentiti elogi, ma esortandoli a migliorarsi”[20].
Collocabile in un ambito sensibile alle istanze positivistiche[21], il periodico può annoverare, in effetti, tra i suoi principali collaboratori, il pedagogista De Dominicis[22] e il futuro leader del socialismo italiano, Filippo Turati, allora nella sua fase evoluzionistica[23]. I temi prevalenti sono riconducibili a quelli di un insegnamento religioso non confessionale, del self-helpismo[24], e del consueto (per l’epoca) binomio istruzione-educazione[25]. La testata, come spesso accadeva in quel periodo, ebbe vita breve (1877-1880?), per poi riprendere, in versione allargata, con L’Educatore Pugliese (1883-1884); potè vantare una tiratura di 10.000 copie, contando su circa 600 abbonati, cifra eccezionale per il tempo e per il luogo. Aristide Guidotti ne è anche l’amministratore, che, pur di tenere in vita il periodico dopo la passività registrata nel primo anno di vita, lo stampa in casa, attrezzandosi con una piccola tipografia. I suoi sacrifici vengono però vanificati, oltre che dalle difficoltà economiche, anche dagli ostacoli posti da riscuotitori poco scrupolosi[26] e dalle vicende private del direttore Castriota, che Guidotti non segue nella seconda rivista[27]. Cura, in quegli anni, la prefazione di Umanesimo e mondo precristiano, Umanesimo e mondo cristiano, Umanesimo e mondo moderno, ristampati a Roma dalla Tip. Sograro, tra gli anni 1950-1953. Collaboraa Il ragguaglio librario, notiziario d’informazione bibliografica stampato a Milano.
Risulta anche autore di due romanzi, La piccola violinista, e Il carme dell’amore, diffusi in particolare nella zona di Milano attraverso case editrici lombarde. Nello scorcio finale del secolo egli scrive, e pubblica, quattro libri ad uso dei giovinetti e delle giovanette:
– L’eredità della mamma. Libro per i giovani, Lecce, Tip. Cooperativa, 1894, riedito, nello stesso anno, dalla Paravia di Torino;
– Tanto gentile e tanto onesta pare… (Il libro della giovinetta italiana), Milano-Palermo-Napoli, Sandron, s.d.;
– Apprendendo e annotando. Dal quaderno di uno scolare diligente[28], Lecce, Tip. Cooperativa, 1903;
– Sapere e virtù: Libro di Lettura per le scuole secondarie inferiori e per i Corsi complementari delle normali femminili, Milano, Celli[29], 1896.
La presenza di questi volumi – particolarmente de L’eredità della mamma – in diverse biblioteche dell’Italia centro-settentrionale (fra le quali la Nazionale di Firenze), e la loro ristampa in anni a noi più vicini, rimane a testimoniare il positivo riscontro di critica e di pubblico nello spazio e nel tempo.
La pubblicazione del libro in queste pagine considerato – Tanto gentile e tanto onesta – rientra nel piano editoriale della ditta palermitana guidata da Remo Sandron che, verso la fine degli anni ’80, intende rafforzare la propria immagine di casa editrice specializzata in campo educativo (nel senso lato del termine). Allo scopo si inserisce nei nuovi spazi di mercato, aperti dal settore dell’educazione popolare e giovanile, avviando la preparazione e la diffusione di collezioni come La cultura del popolo e Giovinezza! – La lettura che diverte ed educa. I volumetti, di piccolo formato (in-16) e a basso prezzo di mercato (due lire), ma curati nella veste tipografica e nella quantità e qualità delle illustrazioni, sono quindi confezionati in modo coerente con il progetto. Tra gli autori dei titoli in collana, riscontriamo, accanto ai noti Luigi Capuana, Grazia Deledda, Salvatore Di Giacomo e Marino Moretti, e a qualificate scrittrici di settore, nomi provenienti dal mondo scolastico, come il nostro Guidotti, segnalato come autore, per la stessa casa editrice, di libri di lettura e di premio. Rientrano in questa tipologia quei testi agili a finalità educativa, ad uso dell’infanzia e dell’adolescenza, che venivano appunto donati, nelle cerimonie di fine anno scolastico, agli alunni più meritevoli per profitto e comportamento. La Sandron, che nello stesso periodo va progressivamente rafforzando il proprio apparato tecnologico, organizzativo e commerciale, si espande verso una produzione di ampio respiro, che accoglie anche le novità del mondo scientifico e filosofico, senza preclusioni ideologiche o localistiche[30].
Il volumetto – non datato, ma, in base agli elementi conoscitivi sopra riportati, situabile intorno al 1895 – viene presentato dall’autore come la raccolta ordinata (in 444 pagine) di annotazioni morali, dal tono colloquiale, affidate da una nonna alla propria nipote Ada come testamento spirituale. Esso si pone in continuità ideale fra i due titoli, precedente e successivo, per la scelta dei destinatari, per i contenuti trattati e per la complementarietà funzionale dei tre referenti utilizzati come specchio educante: mamma, nonna, coetaneo-modello. Gli scritti, disposti secondo una successione cronologica – da ottobre a luglio, coincidente con l’arco dell’anno scolastico – non sono titolati: tuttavia, in ognuno dei quaranta capitoli, è possibile individuare un filo conduttore interno, che consente quindi di seguire con continuità l’intero discorso. Di solito il capitolo ha inizio con un episodio tratto dalla quotidianità, protagonisti fanciulli coetanei della nipote, da cui la nonna trae spunto per riflessioni educative. O viceversa, l’esordio è costituito da alcune affermazioni di principio, sviluppate secondo una struttura argomentativa chiara e fluida, cui fa seguito un episodio reale, o una favola, o un breve racconto che si riannodano al tema portante. Completano ogni parte, in modo alternato, una serie di proverbi, o alcune ‘cognizioni utili’ (esposizioni di tipo scientifico), o brevi gallerie di donne italiane del passato, esemplari per vita e opere. Ovviamente il nucleo fondamentale attorno a cui ruota la galassia narrativa è la costruzione di un modello educativo femminile congruo con l’impianto ideologico dell’autore, secondo schemi linguistici e concettuali fruibili dall’intelligenza della fresca lettrice.
Significativa è la scelta della figura della nonna quale riferimento educativo: rappresenta l’altro significativo, la donna che, avendo attraversato le esperienze esistenziali, può credibilmente comunicarle nella forma semplificata ma autorevole di una precettistica gnomica. È lo specchio maturo della fanciulla, che viene resa consapevole dei limiti e delle potenzialità insite nella natura muliebre, mediante una figura alternativa al padre, solitamente severo e poco incline al dialogo; alla figura materna, ansiosamente tenera; ai fratelli e sorelle, o troppo complici, o troppo rivali.
L’ambito sociale di elezione è quello borghese, nel senso ampio del termine. È prevalentemente borghese la sceneggiatura di sfondo, sia del paesaggio ‘naturale’ che di quello domestico, lo sottende il linguaggio comunicativo, lo esprime la mentalità intermedia, aliena dagli eccessi snobistici dell’aristocrazia come dal rancore di classe del proletariato urbano, o dalla rozzezza superstiziosa dei contadini. È borghese la voce narrante, il punto di vista privilegiato attorno al quale scorrono i fatti quotidiani, gli episodi storici e le rassegne dei personaggi. L’essere borghesi qui non è semplicemente una classe dell’avere, ma una categoria dell’essere, in equilibrio tra gli opposti estremi – entrambi nocivi – dei comportamenti individuali e sociali. Il conte Aristide Guidotti ripudia le mende del suo ceto, per riprenderne e coniugarne i valori più alti con le aspirazioni borghesi alla società delle belle maniere[31].
La destinataria, infine. Fondamentale per l’educazione femminile è il momento dell’accentuarsi della differenziazione sessuale: occorre prevenire i problemi dei processi di sessuazione, e al contempo preparare al ruolo materno e coniugale; ne consegue che la platea delle ‘nipoti’ sia ravvisabile nel novero delle fanciulle in età pre-puberale, tra i dieci e i tredici anni, delle quali i personaggi proposti per l’identificazione sono coetanei.
Per comodità espositiva, si preferisce presentare i contenuti disposti nelle aree tematiche prevalenti, che offrono il vantaggio di una lettura più organica dell’opera.
3. La vestale della moralità: educata ad educare
Una delle tipologie educativo – letterarie che si va affermando nel tardo Ottocento italiano è quella dei cosiddetti ‘Plutarchi’, che, sulla scorta delle Vite parallele dello storico greco Plutarco, propone raccolte di biografie selezionate come esemplari. Tale tendenza risponde a diverse esigenze formative, in parte strutturali, in parte dettate da circostanze contingenti. Intanto, in un’epoca in cui si vanno ridefinendo i ruoli dei due sessi, attraverso il criterio della separatezza educativa (classi scolastiche autonome, figure educanti distinte, luoghi e ambiti specifici) opera anche la letteratura.
Occorre poi costruire un quadro storico comune di riferimento, in cui i particolarismi locali possano convergere in senso nazionale[32]. L’operazione, non inedita nei processi di costruzione identitaria, in questo caso però coinvolge modelli ed educandi di sesso femminile: è noto come, allo scopo siano stati recuperati, nella trama di un tessuto connettivo, storie e personaggi altrimenti difficilmente correlabili, come la lotta tra Comuni e Impero nel Medioevo, la figura di Francesco Ferrucci opposto al vile traditore Maramaldo[33], La Disfida di Barletta, ecc.[34] Intimamente legato a questa motivazione, urge il bisogno di creare una memoria storica collettiva, una tradizione narrativa che accomuni le frammentate realtà regionalistiche della giovane nazione. Ancora, proporre esempi di eccelse virtù presenti in affascinanti personalità, può fungere da antidoto ai pericoli di un’epoca nascente, di cui gli spiriti più sensibili cominciano a percepire l’involuzione in senso massificante. Non è estranea, infine, a questa strategia pedagogica, la proposta di modelli femminili di concordia e di disciplinamento sociale, in una congiuntura storica in cui un malinteso emancipazionismo sembra suggerire in positivo immagini di virago aggressive, sovvertitrici delle regole sociali, che fumano e che vestono come gli uomini.
Seguendone tale direzione[35], la nonna propone all’emulazione della nipote una galleria di cinquanta donne, illustratesi nella storia italiana per i loro meriti. Distribuite in modo sapientemente alternato[36], scorrono sintetiche biografie di poetesse, letterate, artiste, cultrici delle scienze naturali, tutte però accomunate dall’alto lignaggio, che ha oggettivamente favorito la loro carriera.
Gli ostacoli che, nelle rispettive epoche, queste donne hanno saputo affrontare e superare, sono frapposti dalla volontà familiare, in genere poco propensa a favorire il cursus honorum delle figlie. L’autore non nasconde il progressivo incremento delle opportunità di studio per le donne nell’avvicinarsi all’età contemporanea: rispettosi delle diverse realtà regionali, gli esempi sono concentrati in maggior misura nell’età dell’Arcadia e dei Lumi, quando le nobildonne italiane partecipano della vita culturale, animando salotti grazie al passaggio da bucoliche pastorelle ad esempi di ninfa Egeria. La carrellata, che si ferma al secolo XVIII, non annovera però Eleonora Fonseca Pimentel o Luisa Sanfelice, protagoniste della repubblica partenopea del 1799, forse a causa del loro ruolo rivoluzionario assunto nelle circostanze, come tralascia le donne del Risorgimento, o perché eccessivamente emancipate da figure maschili tutelari, o più probabilmente per non entrare nel merito delle scelte politiche, persino nel caso di Anita Garibaldi, costretta al sacrificio per dedizione al suo uomo. Nessuna figura di martire cristiana o di eroina civile risulta menzionata: l’autore esclude l’estremo sacrificio sia per la fede che per la patria, riservando l’esaltazione delle virtù per una pratica domestica e quotidiana. Della tradizione cattolica viene però recuperata Santa Caterina da Siena, segnalata piuttosto per la sua preparazione culturale che per il ruolo di ambasciatrice durante la ‘cattività avignonese’ del papato trecentesco[37].
Un altro tratto identificativo forte è quello del carattere disinteressato dei loro studi – non a caso la quasi totalità di esse è dedita alle lettere – connotato come un momento fenomenologico del loro spirito, che talvolta può trovare continuità nelle opere caritatevoli o nella pietà religiosa. Il sapere come mezzo di elevazione del grado complessivo della spiritualità femminile, insomma, posto sempre al servizio di quei processi educativi e auto-educativi, che caratterizzano età di rinnovamento come quelle dell’Umanesimo – Rinascimento o dell’Illuminismo. Nella rassegna del Guidotti non si avvertono tuttavia le riserve e le cautele espresse negli anni coevi da autorevoli esponenti della cultura positivista, come, ad es., Paolo Mantegazza – spesso citato nei libri del Nostro – a proposito degli studi scientifici condotti da donne, come Maria Gaetana Agnesi, gentildonna rinascimentale assurta ad archetipo ambivalente della donna-scienziata italiana[38].
La figura femminile viene visitata dal nostro autore nelle sue plurime e intrecciate identità parentali: madre, moglie, figlia, sorella, e, in forma privativa, come vedova, orfana, soggetta alla perdita del figlio. Fra queste domina indubbiamente il modello pedagogico della genitorialità, che prescinde dal dato puramente biologico: “Educare la fanciulla a essere madre è un educarla a ben sostenere la vita anco senz’essere madre”[39]. La donna è comunque educatrice, anche se circostanze biologiche o sociali le potrebbero negare la gioia della maternità. Ma prima di consigliare e di guidare, la futura madre dovrà apprendere l’arte dell’obbedienza nei confronti delle persone più mature, per rispetto della loro esperienza, perché rappresentano il collegamento tra le generazioni, perché hanno lavorato e sofferto molto, perché sono in grado di insegnare la prevenzione delle furbizie, in cui l’ingenuità femminile può essere avvolta[40]. Il potere educante della donna è superiore a quello dell’uomo, in quanto
la donna può educare l’uomo, e anche santificarlo e farlo sapiente, più che non sappia questi lei. Alla giovanetta bisogna raccomandare, non con parole, ma con esempi, il dispregio della ricchezza e l’amore dei poveri; bisogna parlarle sovente dei dolori che attendono le più felici tra le figlie d’Eva. L’educazione che molti danno alle donne serve a renderle buone civette piuttosto che buone madri. I torti che noi rimproveriamo alle donne son quasi tutti negli uomini[41].
La donna, quindi, quale educatrice per eccellenza, garante della moralità della famiglia, secondo lo schema borghese dei ruoli coniugali prefigurato dal Rousseau[42] e consolidatosi nell’Ottocento: la moglie per l’interno della casa, l’uomo per gli affari esterni. Se “il padre insegna a rispettare il dovere, la madre insegna ad amarlo”[43]. Pertanto, l’eventuale violazione delle regole morali da parte dell’uomo, non avrà il medesimo valore di gravità dell’infrazione femminile. In questa logica vengono perciò declinate le competenze coniugali, per mezzo del racconto degli scambi del contadino, uno più svantaggioso dell’altro, vistosamente in contraddizione con il principio della parsimonia e del sano utilizzo delle risorse. Qui invece si rimarca la subordinazione della moglie, che riesce sempre a trovare giustificazioni alle avventate operazioni condotte dallo stolto coniuge, fino a trarre la morale dell’accontentarsi sempre e comunque[44]:
La buona donna fa la buona casa, sicché, contentandosi del poco e circondando di santo affetto la propria famigliuola, si cura poco delle vanità del mondo, che finiscono sempre per dar fastidi e dolori, e si contenta di quanto Iddio le concesse[45].
In ambito familiare può accadere che la bambina dimostra quel coraggio che il nostro autore non ha ritenuto utile evidenziare nelle donne eroiche del passato. Una discussione tra fratelli circa l’esistenza della donna-cavaliere Brandimarte, celebrata dai versi dell’Ariosto, porta la sorellina all’esclusione dei giochi paramilitari maschili. Successivamente la bambina riesce a salvare dall’arrivo imminente di un treno una piccina che si era smarrita, mentre il fratello e il suo amico, tremanti dalla paura, rimangono inattivi[46]. Il coraggio femminile si deve esprimere, quindi, oltre che nel donare, anche nella salvaguardia della vita.
Ma quali sono le virtù proprie della donna?
Il pudore è il più bell’ornamento delle donne. È quel certo ribrezzo, o ripugnanza naturale, che gli animi ben fatti sogliono sentire per ogni azione sconveniente o maliziosa […] è quel delicato sentimento che facendo temere dell’ombra stessa del male, mantiene le consuetudini pure e ordinate, così, come la morale richiede. È il miglior custode della virtù.
Quando una donna si guarda allo specchio, se è brutta deve dire tra sé: “Che sarà se manco di virtù? E, se è bella: “Sarò sempre più stimabile se avrò costumi onesti”. Chi rende colpevole la giovinezza delle donne e ridicola la loro vecchiaia? La vanità[47].
Il seguire le continue lusinghe della moda costituisce una tentazione per la modestia delle giovinette, le quali devono avere cura della persona e dell’abbigliamento senza seguire le mode e imitare la passione per il fasto che hanno gli opulenti[48]. Il circolo virtuoso così si conchiude: essere sobrie nel vestire significa praticare l’economia (“madre dell’indipendenza, della libertà e dell’abbondanza”), che non disperde i danari in vestiti superflui, prevenire la vanità, essere previdenti per il futuro e manifestare anche autonomia nelle scelte dell’abbigliamento. Pertanto,
dove di moda è la virtù, la virtù non è di moda. Con cieco dispotismo la dea Moda governa sotto i nomi più diversi. Presso i grandi si chiama Cerimoniale; presso i teologi Rituale; presso gli avvocati Procedura; presso i medici Metodo; presso tutti usanza[49].
La modestia è un altro dei capisaldi della virtù femminile. Il suo valore viene, come al solito, dimostrato con l’analogia per contrario:
L’affettazione ha due principi: la vanità e il gusto corrotto; onde non la chiamerei una passione, ma un traviamento dell’amor proprio, ed un errore di giudizio. Quanto all’affettazione che nasce da vanità, si può guarire o preservarsene, adoperando i rimedii che fanno contro di quella: voglio dire che la virtù vera e la vera scienza, con l’impedire di parer vane, c’impediscono pure d’essere e di parere affettate. A combattere l’altra maniera di affettazione, causata da corrotto giudizio o falso gusto, sarà molto opportuno educare l’animo giovanile all’amore del bello. Questo fa prendere in aborrimento l’esagerato e il lezioso, questo impedisce che la semplicità si muti in rozzezza, dandole un andare libero, disinvolto, grazioso. L’affettazione è un vizio non delle persone volgari, ma di quelle apparentemente istruite, che avendo guastato il giudizio, sono portate a sdegnare le naturali bellezze[50].
Si concretizzano così due estremi del comportamento femminile da rifuggire: quello della parvenu, che divenuta nobile, conforma la sua gestualità al portamento dei nobili, deformandolo in modo ridicolo perché non connaturato; la donna che ostenta libertà, disprezzo della tradizione e dell’autorità, ritenendo irragionevole “la differenza posta dalla natura tra i costumi e gli usi donneschi e i costumi e gli usi virili”.
Definita in positivo, la modestia consiste nel
farci credere minori di quello che siamo realmente, [che] ci procura sempre il vantaggio di trovarci superiori ai nostri impegni. Si è sempre veduto che la modestia è la compagna fida e indivisibile del vero merito, del vero sapere. La nobiltà non si acquista nascendo, ma virtuosamente vivendo[51].
L’apparenza inganna […] spesso, sotto umili vesti, si nasconde un essere nobile e generoso, come sotto abiti sfarzosi e ricchi un cuore malvagio e codardo[52].
Un tema molto ricorrente nella pedagogia positivista è quello della stretta interazione tra il fisico e il morale nell’essere umano: uno degli assi portanti è la cura dell’igiene personale, di cui la donna
dovrebbe essere nella nostra società il primo apostolo, insegnandola all’uomo-fanciullo […] senza bisogno di terrori o di sofismi si può rendere onesto l’uomo con l’igiene del corpo, del pensiero e del cuore, e confondere in una sola armonia la salute fisica colla salute morale[53].
Il filo del discorso si dipana allora sui due piani, fino a intrecciarli: la castità genera la modestia e prolunga la giovinezza, la temperanza non è solo moderazione alimentare, ma produce laboriosità, sensibilità e sacrificio, respirare attivamente aria pura dispone all’allegria e agli affetti. In definitiva, la corretta applicazione delle regole igienistiche è al contempo causa ed effetto della fede nella vita[54]. La nuova attenzione a tale pratica educativa rivela chiaramente la sua portata ideologica: se da un lato appare congrua con l’obiettivo di salvaguardare le risorse umane della nazione che va industrializzandosi – l’esercito civile dei lavoratori – dall’altro assume la funzione di cristallizzare le gerarchie sociali, attraverso lo stereotipo della ‘miseria pulita’[55]: non si danno condizioni sociali tanto miserevoli, da non poter curare almeno l’igiene personale. Non per nulla lo slogan adottato dalla precettistica igienica di quegli anni è: “Oro e gemme a pochi, pane, aria, luce a tutti”. La donna può produrre, in tale contesto, un effetto moltiplicatore attraverso la formazione di una prole robusta e pulita, contribuendo al progresso nazionale anche attraverso il pieno dispiegamento delle energie vitali disponibili, preparate così a sostenere le alterne vicende della fortuna senza sentimentalismi e squilibri psicologici. Appare evidente la riduzione del problema a una mera questione di abitudini e di mentalità, tralasciando gli aspetti inquietanti – sin d’allora – della mortalità sul lavoro e del lavoro minorile, dell’incidenza di malattie endemiche e dell’aumento di quelle a trasmissione sessuale. Quest’ultimo pericolo è appena adombrato, né poteva essere diversamente, in un’epoca in cui l’educazione sessuale non poteva assurgere a momento formativo pubblico.
Guidotti rintraccia i limiti della psicologia femminile, avallati dalla scienza positivista in voga, particolarmente attenta alla sfera neurobiologica. Ai fini della corretta formazione del carattere delle fanciulle, occorre quindi tener presenti le peculiarità del carattere muliebre, nel quale
l’immaginativa soverchia le altre facoltà della mente, e domina, e trascina seco l’affetto e la volontà […] Quindi terremo lontane le nostre figliuole dalle compagnie e dalle letture che tendono ad aumentare il vigore e la mobilità della fantasia. Perciò nel far elezione dei nostri amici, è mestiere usare molta sagacità e diligenza; ma di questo è incapace una giovanetta, quindi se la saviezza altrui non l’aiuta, essa verrà tratta in errore dall’impeto e dall’affetto, sempre troppo proclive a credere il bene.
Sovente accade che una fanciulla perde la sua innocenza e la serenità dei suoi pensieri per l’esempio e per le parole di una sua buona amica. E dove questo non sia, l’amicizia tra giovinette è quasi sempre di grave pericolo, imperocché favellando insieme di ciò che vogliono e che sperano, l’una all’altra rappresenti le cose non quali sono nella realtà, ma quali l’immaginazione le dipinge alla loro mente coi suoi fantastici e fuggitivi colori[56].
Per questo, conclude l’autore attraverso lo scritto della nonna, la “principale e forse sola amica” di una giovinetta deve essere la madre che, comprendendo la natura femminile, è in grado di prevenirne gli errori con l’esempio e i consigli affettuosi[57], primo fa i quali rifuggire dall’ozio, che
in particolar modo suona dannoso a noi donne. Infatti quelle donzelle e quelle giovani donne, che per la nobiltà dei natali e per la ricchezza si credano sciolte dall’obbligo, a tutti imposto, di impiegare il tempo in eletti studi e in profittevoli occupazioni, portano tosto al pena del loro errore. Molte vane fantasie erompono ad agitare l’animo loro; i desideri e le speranze riempiono talmente la vacuità delle oziose menti che non rimane più spazio in esse agli ammonimenti della ragione, né ai consigli dell’esperienza[58].
L’irresolutezza, a sua volta, si presenta come
un brutto difetto, che ha molti punti di contatto con la volubilità […] è un peccato veniale che avrebbe diritto di passare per peccato mortale. I moralisti lo pongono nella categoria delle semplici male abitudini, quasi ridicolo […] L’irresoluto ha l’immaginazione del sognatore, pigrizia, desidera quello che non ha […] Nella irresolutezza vi sono due cose: un difetto nativo e un’abitudine. Fa d’uopo combattere il difetto nativo con l’abitudine. Le armi della ragione si smussano; le buone risoluzioni non bastano; l’abitudine sola ne verrà a capo, basata su una regola molto semplice: dal momento che, dopo maturo esame, si è detto: “Farò la tal cosa, a qualunque costo e checché accada[59].
Nella rappresentazione dell’irresoluto la narrazione tocca i vertici della comicità espressa dal libretto, servendosi di periodi brevissimi e di immagini incalzanti che rendono bene l’idea di un animo combattuto tra più soluzioni, che gli appaiono tutte di egual peso[60].
L’esaltazione della ragione scientifica quale strumento di conoscenza e di progresso viene affermata per biasimare
le superstizioni, che sono un abuso delle religioni nato dall’ignoranza. Esse adunque sono un gran male, perocché la religione è il più grande dei beni. Nell’animo degli ignoranti le superstizioni tengono vece della vera religione, la quale, pura e immacolata, non consente che in alcun modo si adulterino gli eccessi […] In questo argomento però rimangono ancora tra le femminucce certi pregiudizi e certe ubbie tradizionali, che uomini assennati hanno il dovere di confutare e di distruggere[61].
Alle credenze ridicole – cui l’animo femminile tende a dar credito – si contrappone l’opera della scienza, faro di civiltà, che non solo spiega i fenomeni naturali, ma compie prodigi con l’utilizzo dell’elettricità, cui il Nostro dedica ampio risalto. Apparentata con la superstizione è la paura, per la cui esemplificazione viene scelto però un ragazzo, il quale supera il timore del buio, spinto dalla necessità di cercare soccorsi nella notte per la nonna ammalata[62].
4. Povertà della ricchezza, ricchezza della povertà
Frequente è nei racconti la presenza dei poveri, cui si accompagnano sventure di varia eziologia: l’assenza – per morte o abbandono – di congiunti, specie nei bambini; la perdita (o la mancanza cronica) del posto di lavoro, la fatiscenza (o la deprivazione) dell’abitazione, svariati travagli fisici e morali. La loro condizione non viene mai inquadrata in un realistico quadro economico-sociale, correlata ai rapporti di produzione, alle condizioni di lavoro o all’insufficienza delle misure sociali di protezione, ma si configura come un dato naturalistico e come tale non bisognoso di giustificazioni. Davanti a tale tragedia sociale, che priva della soddisfazione dei più elementari bisogni, le soluzioni prospettate sono esclusivamente di tipo solidaristico: sembra quasi che l’esistenza della povertà sia uno strumento per poter mettere alla prova la maturazione delle capacità di altruismo, di gestione della propria ricchezza e, in generale, del proprio equilibrio emotivo in rapporto alla vita stessa.
Già nel primo racconto due bambini, fratello e sorella, si trovano davanti alla tragedia di una piccola orfana che chiede l’elemosina: il maschietto non esita a regalarle le sue cinque lire, frutto dei suoi risparmi, mentre la bambina preferisce acquistare una bambola, forse per soddisfare la propria leggerezza femminile. Mentre il padre sceglie la via di un neutrale attendismo (“i soldi son vostri, ma con l’elemosina potrebbero anche esser buttati via”), i fatti successivi danno ragione al gesto del ragazzo, perché l’orfana procrastina la soddisfazione dei propri bisogni vitali a favore di un investimento in ortaggi, che poi vende e rivende con progressivi ricavi, fino a presentarsi alla casa del suo piccolo benefattore, in abiti nuovi, segno di una migliorata condizione sociale[63]. Una lezione di self-helpismo in versione infantile, insomma, in cui si tratteggia la possibilità che, se un povero può migliorare la propria condizione, chi rimane misero abbia responsabilità personali di scarsa intraprendenza e di limitata attitudine al lavoro:
Non sempre, anzi ben poche volte, la miseria assoluta può essere considerata come una sventura non meritevole. Per lo più, fatte le debite eccezioni, non è altro che il frutto dell’ozio, dell’ignoranza, dei vizi, dell’imprevidenza[64].
Al contempo, questa visione restringe le potenzialità esclusivamente in positivo della generosità, poiché il seme dà frutti in rapporto al terreno in cui è seminato[65]. Si profila l’ambiguità del modello della ‘carità educatrice’: da un lato funge da esemplare segnale di solidarietà verso i disagiati, dall’altro spinge questi ad accomodarsi sull’elemosina altrui, non ricercando altri stimoli al miglioramento della propria situazione. Non meno ambivalente si delinea la funzione del lavoro e del successo sociale, che ricalca la morale del verghiano Mastro Don Gesualdo: l’arricchimento esclusivamente per ambizione personale è condannabile e nocivo a livello individuale, ma contribuisce positivamente all’accrescimento della prosperità nazionale.
In qualche occasione ai poveri viene offerta una chance di tipo miracolistico: come accade a quel tale che, desiderando di esser ricco, si vede offerta da un mago una borsa che produce monete d’oro finché il suo proprietario non ne spende almeno una. Ma lo sventurato dimostra la ristrettezza della sua visione, cumulando a oltranza finché non muore di fame, sommerso dalle ricchezze accumulate. Per cui,
la vera ricchezza è contentarsi; è meglio povertà onorata che ricchezza svergognata; la cupidigia non è mai contenta finché non abbia la bocca piena di terra; che infine gli uomini cupidi non sono né vestiti, né cibati, né rispettati[66].
La favola dimostra che anche nel cuore dei poveri può nascondersi il gene dell’avidità, che viene reso esplicito davanti alla gestione di una inaspettata ricchezza, che qualifica l’avidità come categoria antropologica. Quando, al contrario, fanciulli miseri e orfani donano ai questuanti tutto ciò che loro è rimasto, il miracolo li premia con l’intervento miracolistico delle classi agiate (ad es., il matrimonio con un principe)[67].
Si prospetta allora un rovesciamento dialettico delle due polarità sociali, attraverso lo sviluppo di una dinamica, che da un lato evidenzia le potenziali doti morali favorite dalla condizione di indigenza, dall’altro i forti legami che lo stato dovizioso contrae con la lussuria, l’ostentazione, la cupidigia, l’angoscia dell’eventuale perdita dei beni, la visione materialistica della vita:
Io non affermo che tutti i poveri siano buoni e pazienti; molti però sono tali, e siccome è giusto di essere grati a questi dei vinti contrasti e delle difficoltà superate, così dobbiamo scusare i meno buoni, ponendo mente alle continue tentazioni cui sono esposti, e alla ignoranza in che vivono degli umani diritti .
La povertà, per se stessa, non è cosa degradante, né deve far arrossire o scoraggiare alcuno, quando ciò non derivi da cattivi costumi. Essa può servire di stimolo a ben operare, contro il lusso, l’orgoglio, l’infingardaggine[68].
La condizione del ricco non è invidiabile: tanto più abbonda in averi, tanto più è insidiato dagli affanni e dalle passioni, soprattutto se nutre bassi sentimenti: la ricchezza allora degenera in lusso e si accoppia al vizio. Il popolano, invece, pur non fruendo di alcuna delle comodità di cui fruisce la persona agiata, gode di “contentezza e tranquillità d’animo”. Per riscattarsi dalla propria condizione moralmente pericolosa,
i ricchi abbiano a considerarsi più come depositari che come padroni assoluti delle sostanze che hanno. Dio non diede loro tanti beni, perché non ne abbiano maggiori meriti e diritti degli altri, ma perché Egli vuole che il povero riceva dalle mani del ricco ciò che gli necessita, e il ricco si nobiliti colla generosità nel compensare il lavoro, o nel soccorrere[69].
La nonna educatrice, dovendo avanzare qualche ipotesi di spiegazione sull’esistenza della disuguaglianza sociale, ricorre spesso al paragone con il mondo naturale, che viene antropomorfizzato attraverso il riferimento a funzioni e a termini propri del mondo umano, come trono, diritto, partiti. Classici esempi vengono forniti dal mondo delle api, dove le accentuate differenze di ruolo e di potere vengono prese ad esempio di una società efficiente, che previene le lotte intestine mediante la soppressione delle regine[70]. Oppure, impartendo una generica lezioncina di storia, interpreta le disparità sociali
come un bene e una vera necessità. Se fosse altrimenti, non vi sarebbe progresso, ed invece di molti, saremmo tutti poveri. L’esperienza ha già dimostrato più e più volte che al mondo non può governare a lungo un’assoluta uguaglianza di ricchezza, giacché esiste tra i vari abitatori di esso disparità di forza fisica e morale, intelligenza, volontà, attitudini a operare il bene. Dappertutto, ove si tentò di realizzare l’utopia, ritornò l’ineguaglianza […] [71].
Se essenziale per la corretta introiezione dell’organizzazione sociale è l’osservazione diretta dei fatti e delle persone, risulterà proficuo (oltre che esteticamente apprezzabile)
il condurle [le fanciulle] a visitare le botteghe e le officine, e tutti quei luoghi nei quali i popolani intendono alle opere della industria e si affaticano in vari mestieri. Oltre che è bello vedere l’artificio delle macchine, l’agitarsi delle braccia dei lavoranti, ed il continuo affaccendarsi che questi fanno nel compiere l’ufficio loro con animo volonteroso, e con la serenità degli uomini sobri e attivi, egli è pure di grande utilità alle giovinette il fare loro osservare da presso i costumi e le fatiche degli artigiani, poiché da ciò verranno indotte a conchiudere essere grandi i beni della vita operosa, facendo questa gli uomini sani, robusti e paghi del loro stato; doversi onorare nei popolani il paziente amore del lavoro e la parsimonia; doverli noi considerarli non quali inferiori, ma quali compagni che ci aiutano a vivere con diletto e con agiatezza, imperocché essi non fossero, noi mancheremmo della maggior parte dei comodi e dei piaceri di cui godiamo[72].
Di “comodi e piaceri” difetta la plebe, le cui privazioni raggiungono livelli tanto eccessivi da sembrare oggetto di fantasticheria a chi non le vede: pertanto anche queste sarebbero degne di osservazione interessata.
5. Amor patrio al femminile
Conseguita l’unificazione politica, gli intellettuali puntano a consolidare la coesione interna del Paese, minacciata dai tradizionali localismi (“chi ama solamente la provincia, la città, il comune, il villaggio ove nacque, non può vantarsi di amare la patria”[73]) e da nuovi nemici, tra i quali cresce l’organizzazione del movimento operaio e socialista. Logico che la nuova accezione di patriottismo sia correlata all’unione e alla concordia tra le classi, perché
non è solo colle armi che ci si può rendere utili, ma benanco coll’esercizio di modeste virtù cittadine, con generosi sacrifici di beni morali e materiali nei tempi di guerra e di altre pubbliche calamità[74].
Alla religione deve la nostra Italia gran parte del suo splendore. E non fummo noi forse vincitori delle battaglie, intrepidi e forti, quando le nostre milizie andavano al campo avendo tra le loro file il carroccio con l’altare e il crocifisso? L’amore della patria non era forse vivo negl’italiani, allorché si radunavano nelle chiese a trattare ciò che importava della salute comune e per ordinare lo stato[75]?
Vengono ricordati i vincoli di sangue, che identificano la grande con la piccola famiglia:
Se hai santa la madre, la tua patria ti deve essere santissima, perché ella è la madre di tua madre […] Dedica le tue glorie e i tuoi trionfi al tuo paese: è la parte di te che non muore[76].
Se nell’economia del libro i temi nazional-risorgimentali appaiono come laterali rispetto al centro etico prescelto, il più prolisso racconto, tuttavia, viene dedicato dall’autore all’educazione patriottica, che, a differenza delle altre narrazioni, generalmente snelle, si protrae per tre capitoli, puntando a generare suspence nel lettore, con interruzioni alla fine, lunghe descrizioni paesaggistiche, colpi di scena, ecc.[77] La vicenda è ambientata nella terza guerra d’indipendenza (1866), nella campagna veneta, scenario raramente frequentato dalla retorica risorgimentale, per le conclusioni poco gloriose per il prestigio delle armi italiane. Una ragazzina, simbolicamente abitante sul confine italo-austriaco – tòpos abbondantemente sfruttato prima e dopo dalla letteratura per ragazzi[78] – vagheggia sulla riva del fiume la sua autentica patria, l’Italia, cui aspira a ricongiungersi. Non mancano i temi romantici dell’impossibilità a calarsi nei panni dell’altro sesso (“ah, se fossi un uomo!”)[79], che sembra replicare il disappunto della bambina a partecipare ai giochi guerreschi dei maschietti. La ragazzina evoca sognante la visione esteticamente (ed estaticamente) struggente della bella guerra, fatta di eroismi e trionfi[80]. Appartenente ad un contesto familiare che la predispone in senso positivo all’azione (nonno ex-combattente con Napoleone, due fratelli, anche qui significativamente, arruolatisi in modo equo rispettivamente con Garibaldi – l’esercito volontario – e con le truppe regolari – l’esercito monarchico – che sintetizzano le due anime del movimento indipendentista italiano), il caso offre alla fanciulla l’occasione di rendersi utile alla guerra combattuta contro l’Austria. Un capitano dell’esercito italiano, non esperto del terreno che sta perlustrando in ricognizione, chiede informazioni alla ragazza, cui la famiglia lascia inopinatamente molta libertà di movimento nel territorio. Si tratta di dati molto riservati, perché utili alla manovra che dovrà sviluppare in una prossima battaglia un reparto italiano. La simpatia tra i due personaggi è immediata: il militare rappresenta per la fanciulla la possibilità del bel gesto, la ragazza rammenta al capitano la propria figlia lontana… Ma accade l’imprevisto, sotto la specie dell’arrivo di un ufficiale nemico, che ingaggia un estenuante duello alla sciabola con il pari grado italiano (altra figura del Romanticismo: il duello come riparazione del torto e come semplificazione delle schiere contrapposte). La leale vittoria di quest’ultimo, che spezza l’arma all’avversario, viene vanificata dalla scorrettezza dell’austriaco che ferisce gravemente il nemico con una revolverata a tradimento. Nel tragico finale, il capitano italiano fa in tempo a colpire mortalmente l’altro duellante, e ad affidare alla ragazza, rimasta presente alla scena, il messaggio al comandante del reparto. I toni drammatici dell’intreccio crescono, tormentando la piccola eroina combattuta tra amor patrio e obbedienza filiale, fino all’inseguimento, alla cattura e alla predisposizione di un plotone di esecuzione contro la giovane messaggera. A sorpresa, arriva il lieto fine, che propone il confronto fra l’umanità del comandante austriaco, che la risparmia, e il rancore di un soldato croato, che con una fucilata colpisce di striscio al braccio la ragazza[81]. Morale: è lecito trasgredire alle norme familiari, se lo richiede il superiore interesse della patria, i nemici sono anch’essi dei valorosi, e meritano rispetto soprattutto se rispettano a loro volta gli abitanti inermi e i codici militari. La donna, nei momenti bellici, può intraprendere il ruolo di staffetta nella trasmissione di messaggi, assumendosi tutte le responsabilità del caso, compresa quella di essere fucilata per spionaggio.
6. Tra Positivismo e Spiritualismo: note per un bilancio critico
Si parva licet,il peso del decennio che separa il libro del salentino da quello di De Amicis è abbastanza avvertibile: molto di quel retaggio, se non scomparso, è stato rielaborato. Se sappiamo che lo scrittore ligure pervenne a conoscenza di Tanto gentile e tanto onesta – e positivamente lo valutò – non conosciamo quanto siano state percepite, all’epoca, la differenze nell’impianto ideologico e nella trasposizione letteraria. Non si possono queste attribuire solo alla eterogeneità dei destinatari dei due libri, al diverso background in cui essi sono stati concepiti, oppure, ancora, a differenti itinerari intellettuali e sensibilità dei due scrittori di scuola. È possibile piuttosto cogliere i mutamenti dello sfondo politico e sociale, che distanzia l’Italia dell’età crispina da quella giolittiana: il passaggio dalla congiuntura colonialistica e depressiva, allarmata dai movimenti socialisti e dalle agitazioni contadine, alla fase della prima industrializzazione, caratterizzata dal controllo del consenso popolare, secondo l’accorta strategia dello statista piemontese.
Persiste la metodologia induttiva di matrice positivistica, in base alla quale gli apprendimenti più efficacemente si instaurano e permangono, se partono dall’osservazione e dall’esperienza, per poi giungere a conclusioni generalizzabili: nel nostro caso, le esperienze sono quelle direttamente vissute, o verosimilmente sperimentabili in età fanciullesca. Non per nulla, davanti ad eventuali resistenze cognitive opposte dai piccoli interlocutori, l’adulto-narratore propone racconti ed esempi ancora più stimolanti dal punto di vista emotivo.
Relativamente ai contenuti, essi ruotano intorno a temi tradizionali dell’educazione: il rapporto adulto-educando, le apparenze e la realtà, la cura del sé corporeo, il funzionamento della società, le relazioni sociali, i rischi e le difficoltà dell’esistenza umana, ma non è difficile registrare qualche silenzio, come sulla informazione tecnico-politica in senso lato (organizzazione amministrativa, ad es., una sorta di ‘educazione civica’), risolta con l’appello al culto del sovrano, che “è il padre della grande famiglia cui appartieni: amalo, veneralo e obbedisci alle sue leggi”[82]. Con due citazioni, nel volumetto si propongono i rapporti tra potere e società civile: la prima, a proposito dell’epidemia di colera a Napoli, il cui virus viene “portato dal mare da terre lontane”, si menziona l’accorrere di un re buono e magnanimo” (Umberto I), il quale si accosta agli ammalati, sprezzante del pericolo, in una sorta di riproposta civile del celebratissimo “quadrato di Villafranca”[83]. Nel secondo caso, l’evento catastrofico – nella fattispecie immaginario, ma verosimile, data la frequenza con la quale il nostro territorio andava (e va) soggetto ad alluvioni – viene dominato dal freddo coraggio di una donna e dall’arrivo dei bersaglieri, riconvertiti simbolicamente in forza di pace[84].
Si attenuano sensibilmente gli ardenti toni nazionalistici post-risorgimentali, riducendo all’essenziale i nuclei del discorso patriottico: il nemico viene ritenuto degno di rispetto, e le guerre non sono più auspicabili, ma da scongiurare, tanto più che alla pedagogia militaristica va sostituendosi un’etica del lavoro che altrettanto glorifica e accresce la nazione, la cui palestra di vita non risiede più totalmente nell’esercito.
I modelli negativi si combattono non già con l’additare i colpevoli alla pubblica esecrazione, ma con le armi della dolce capacità persuasiva femminile. Non si ritrova più l’insistenza su quella folta umanità sofferente, costituita da invalidi, mutilati, ciechi, diseredati, così variopinta nel Cuore, né l’indulgere su descrizioni cruente di ferite e mutilazioni, e morti, successive ad episodi militari. I bambini del Guidotti hanno preoccupazioni più congrue con la loro età, come la scelta del vestito di maschera o la paura del buio[85]. Alle assillanti prediche scritte dall’arcigno padre ad Enrico Bottini del Cuore, che incalzano gli episodi, si sostituiscono le premurose, e più varie, annotazioni della nonna, che si presuppone, oltretutto, inviate postume alla nipote.
Oltre al confronto esterno, può giovare all’intelligenza del volumetto leccese una comparazione di tipo interno, rivolta cioè agli altri lavori dell’autore, in particolare sul versante dell’educazione maschile, elaborata nei testi precedentemente menzionati. Non potendo effettuare in questo saggio un’analisi approfondita su questi – da ritenere tuttavia meritevoli di successive riflessioni – occorre rilevare come il corrispondente modello di educazione maschile insista più sul versante dello studio, e sull’accesso alle carriere professionali. Allo scopo, la galleria dei Plutarchi maschili si diversifica, e comprende sezioni in cui, riprendendo il motto self-helpista “Volere è potere”, si rimarca l’avventura esistenziale di uomini di umili origini che, grazie allo sfruttamento delle loro doti, ascendono alle vette gloriose della potenza economica, o della creatività artistica. È interessante rilevare come ne L’eredità della mamma siano presenti le micro-biografie di personaggi salentini (intendendo con questa connotazione anche il brindisino Leo e il tarantino Paisiello), del tutto trascurati nel manuale femminile, con qualche apertura alla contemporaneità nelle citazioni di Michele Arditi e di Oronzo Gabriele Costa[86]. Lo spazio di un intero capitolo è dedicato a figure di martiri, lontanissimi nel tempo, nei luoghi nei caratteri, San Giuliano da un lato, Ciro Menotti, Domenico Cirillo e Mario Pagano dall’altro[87] la cui unica affinità consiste nell’essere trascinati prigionieri, al seguito di un tiranno. Modelli di ispirazione positivistica sono i ‘Martiri del progresso’, e gli ‘Eroi del lavoro’, che hanno rischiato o perduto la vita per arrischiarsi in imprese ardimentose, ma di qualche vantaggio per la società: vi troviamo scalatori, navigatori, piloti di mongolfiere, ma anche la silenziosa schiera degli operai sottoposti quotidianamente ai rischi del lavoro in miniera[88]. Una ulteriore specificazione, nell’ambito delle biografie dei famosi, è offerta in Apprendendo e annotando, dove si dedica ampio spazio ai letterati italiani[89].
Le diversa impostazione educativa rispetto al sesso risulta così sintetizzata:
L’educazione […] deve mirare a rendere l’uomo buon cittadino, onesto e lavoratore, istruito e virtuoso, modello di figlio, modello di padre: deve mirare a rendere la donna istruita e modesta, affettuosa e pia, buona figlia, ottima madre[90], dove si vede che la differenza consiste nei sostantivi ‘cittadino’ e ‘lavoratore’ dalla parte maschile, che connotano il suo ruolo pubblico, e negli aggettivi ‘affettuosa e pia’ espressione del patrimonio interiore, familiare e religioso che l’autore ha individuato quale prerogativa dell’educatrice.
L’attenzione posta all’educazione intellettuale a finalità morale segna un significativo passo in avanti rispetto all’addestramento quasi esclusivamente pratico, tipico degli stereotipi della cultura tradizionalista, consoni al ruolo di riproduttrice e di ‘angelo del focolare’. Vengono altresì lasciati alle spalle anche quelli di derivazione romantica, corrispondenti alla donna fatale e sentimentalistica. La donna del Guidotti, certo, non può accedere costantemente e con pari opportunità alle professioni, ma sa affrontare i rovesci della fortuna con animo forte, assumendo, a seconda delle necessità, ruoli di tipo medico (nella cura dell’igiene domestica), tecnico (soccorso nelle calamità), di conforto spirituale (non più delegato ai soli sacerdoti), di staffetta nelle vicende belliche (anticipando la figura che troverà piena applicazione nella Resistenza al nazi-fascismo), sia pure nell’ambito familiare.
Mancano quasi del tutto i riferimenti alla politica, espliciti o impliciti, a differenza del Cuore, dove si prefiguravano i toni della polemica anti-parlamentaristica, in nome del prestigio consolidato della monarchia e dell’esecutivo. Il rapporto tra il sentimento religioso e la fede patriottica appare invertito rispetto all’ideologia deamicisiana; là dove il primo appariva subordinato al discorso nazionale, nel libretto edito dalla Sandron la religione conferisce valore morale ai legami patriottici, e, di conseguenza, alla guerra. Ma, a sua volta, la dottrina religiosa viene rivisitata nelle sue forme a dimensione sociale, dove Dio appare come il supremo garante dell’ordine etico del mondo: ne deriva una sorta di panteismo morale, al quale rimangono estranei il culto dei santi, la somministrazione dei sacramenti, la liturgia delle feste comandate, la gerarchia ecclesiastica ed altri aspetti dogmatici del cattolicesimo. L’azione virtuosa si configura come premio a se stessa, più che un mezzo per guadagnare un posto in Paradiso o per evitare le pene infernali: le motivazioni, più intrinseche all’atto che estrinseche, fanno riferimento piuttosto alla soddisfazione di essere in pace con la propria coscienza e dell’approvazione dell’umano consorzio. Altrettanto si rinviene nel caso della violazione delle norme morali: la mancata riconoscenza verso i genitori si sconta da anziani, con i propri figli.
L’autore evita di presentare una visione frammentata delle virtù da emulare: esse possono essere ridotte all’osservanza dei doveri relativi al proprio ruolo, all’esercizio della solidarietà, al rispetto delle persone anziane, alla sopportazione (in particolare delle sventure), all’accettazione del proprio status sociale. Procedendo a contrariis, gli esempi per effetto di contrasto servono a meglio delineare i profili socialmente approvabili: l’affettazione contro la modestia, la furbizia contro il candore, la mancanza di lungimiranza e di prudenza opposte alla previdenza, la ribellione sociale e l’eccessiva ambizione contrarie all’accettazione del proprio stato, l’utilitarismo che nega la saggia ponderazione delle cose, la testardaggine di fronte all’ascolto, la credenza superstiziosa superata dall’indagine razionale dei fenomeni naturali. Si assiste ad una compenetrazione tra virtù private e civili, e, più in generale, delle diverse virtù tra loro, come d’altra parte avviene nel novero dei diversi vizi, secondo lo schema di una Ethica more geometrico demonstrata, per cui la somma di più vizi dà luogo a nuove, e più nocive, dissolutezze. Nel complesso sembrano prevalere le virtù passive, quelle cioè atte a predisporre atteggiamenti difensivi e di accettazione acritica di norme date, o quelle rivolte alla prevenzione delle sventure, sia che intacchino la salute personale, sia l’ambiente domestico, sia il patrimonio. Relegate nella penombra le doti di tipo attivo ed espansivo, fatta eccezione per il lavoro (anche di tipo intellettuale, soprattutto per il destinatario di sesso maschile), che tuttavia assume un valore etico di per sé, come sintesi dell’educazione intellettuale, morale e fisica, la triade cara alla pedagogia del Positivismo. Non si lavora per arricchirsi – nemmeno quando si è industriali o grandi commercianti – ma per il benessere collettivo, per la valorizzazione sociale delle proprie energie e per rifuggire dall’ozio che, come è noto, è il padre dei vizi.
Agli insegnanti-scrittori dell’ultimo scorcio dell’Ottocento non si può chiedere ciò che non possono dare, cioè la forza dell’originalità pedagogica, anche se spesso tendono a presentarsi proprio in tali vesti. Né si può pretendere un’analisi in chiave critica delle condizioni sociali del Regno d’Italia, per denunciarne le contraddizioni, le politiche dirigistiche o le occasioni perdute (anticipando la nota lettura gramsciana). Sarebbe altrettanto vano e lezioso rimarcare puntigliosamente, di queste scritture pedagogiche, l’eclettismo di una cultura oscillante tra un ingenuo Positivismo e una pedagogia cristiana della rassegnazione, o della protestante religiosità del lavoro. Figli minori del Risorgimento eroico delle battaglie e delle insurrezioni, maestri, pedagogisti, intellettuali hanno operato sul terreno, all’epoca tutto da esplorare, della costruzione civile del Paese, consapevoli della continuità di questa con quella missione. Indagare sull’impalcatura ideologica di questi lavori e inquadrarli nell’humus che li ha fatti crescere è stato utile e necessario, ma letture eccessivamente spinte in chiave strutturalista, o marxista – frequenti negli anni Settanta del Novecento – pur non prive di suggestioni, ci farebbero scivolare su un terreno storiograficamente fuorviante, che oggi non ha più ragione di esistere.
La visuale da privilegiare, allora, potrebbe essere intesa a recuperare lo spirito originario dei libri per la gioventù, ossia quello della comunicazione pedagogica: da questo punto vista autori come il nostro Guidotti ne escono vincenti. In un’Italia tesa a ricercare un linguaggio, prima ancora che una cultura (di massa) condivisa, la semplicità, e al contempo, l’accuratezza della lingua adottata, la sapiente alternanza delle tipologie discorsive e narrative, l’uso di codici espressivi adeguati, quali emergono dal nostro volumetto, contribuiscono a tracciarne un bilancio sostanzialmente in attivo. Già i contemporanei più avveduti non avevano sottovalutato i rischi dell’operazione, “perché molti si illudono soltanto di conoscere a fondo quelle piccole anime, e di sapervi entrare”, come annotava la illustre letterata Ada Negri, nel chiosare il libro del leccese, il cui giudizio in termini educativi è collegato “all’adattamento alla potenza comprensiva, volitiva e operativa dei lettori cui è dedicato”, cautamente segnalati dal prof. Grammatica (nomen omen), che peraltro ne lodava la correttezza nell’uso della lingua. Attendibili e centrate appaiono anche le note di recensione de L’Osservatore scolastico, autorevole settimanale piemontese a diffusione nazionale (XXIX, 1895, 29) : “Non con aride ed astruse teorie, ma con pochi, chiari, succosi ed opportuni precetti dettati in forma epistolare e sempre con quella serena ed affettuosa severità che è nel fare di madre assennatamente amorosa, con una serie di narrazioni o storiche o immaginate e verosimili, saviamente alternate da proverbi ed apoftegmi, insomma con una ricca varietà di argomenti armonicamente diretti ad un unico scopo, il chiaro ed egregio autore, sempre con istile semplice e facile, ma senza banalità, forbito ed elegante, ma senza affettazioni, maestrevolmente sa allettar la gioventù ad amare e praticare quelle virtù domestiche, religiose e civili che sono il fondamento della moralità sociale”[91].
Nonostante le varie riserve che comunque possiamo nutrire su questa letteratura e su questi autori, va considerato che essi non operarono invano nello scenario scolastico italiano. Queste figure di congiunzione tra l’elaborazione teorica e l’estesa ed eterogenea base degli insegnanti, costituiscono oggi, a livelli qualitativamente differenti, uno dei nodi fondamentali per individuare le dinamiche attraverso cui si avviò l’unificazione scolastica, e quindi nazionale, del nostro Paese.
Dinamiche di cui oggi non appare assurdo rimpiangere almeno la carica di entusiasmo fattivo, evidenziato dagli insegnanti di quel tempo.
[1] A parte i primi pionieristici studi di g. vigo, Il maestro elementare italiano nell’Ottocento. Condizione economica e status sociale, in ‘Nuova rivista storica’, 1977, 1-2, pp. 43-84, lavori più ricchi di stimoli (per quanto nella dimensione del saggio) risultano quelli di g. bini, Romanzi e realtà di maestre e maestri, in Storia d’Italia, Annali, IV, Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981, pp. 1195-1224; idem, La maestra nella letteratura: uno specchio della realtà, in s. soldani (a cura di), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, Milano, Angeli, 1993, pp. 331-362; più organico quello dis. ulivieri (a cura di), Essere donne insegnanti. Storia, professionalità, cultura di genere, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996.
[2] Tra gli studi più densi e suggestivi, si ricordano: b. tobia, Una patria per gli italiani. Spazi, itinerari, monumenti nell’Italia unita (1870-1900), Roma – Bari, Laterza, 1988; m. isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria: Personaggi e date dell’Italia unita, 1996, Strutture ed eventi dell’Italia unita, 1997, Simboli e miti dell’Italia unita, 1997, Roma – Bari, Laterza; a.m. banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000.
[3] s. soldani – g. turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, 2 voll., Bologna, Il Mulino, 1993; i. porciani, La festa della nazione. Rappresentazioni dello stato e spazi sociali nell’Italia unita, Bologna, Il Mulino, 1997; g. genovesi (a cura di), Formazione nell’Italia unita: strumenti, propaganda e miti, I, Milano, Angeli, 2002.
[4] L’opera più completa risulta quella diretta da g. duby e m. perrot, Dall’Antichità al Novecento, in cinque volumi; per il periodo considerato ved. g. fraisse – m. perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente, vol. IV, L’Ottocento, Roma – Bari, Laterza, 2003, anche se gli ambiti di riferimento sono per lo più francesi. Per la realtà italiana, ved. m. de giorgio, Signore e signorine italiane fra Otto e Novecento. Nuovi modelli culturali e comportamenti sociali regolati da uno stato civile, in Ragnatele di rapporti, patronage e reti di relazioni nella storia delle donne, a cura di l. ferrante, m. palazzi, g. pomata, Torino, Rosenberg & Sellier, 1988; aa. vv., Le italiane dall’Unità a oggi. Modelli culturali e comportamenti sociali, Roma – Bari, Laterza, 1988; d. gagliani – m. salvati, La sfera pubblica femminile. Percorsi di storia delle donne in età contemporanea, Bologna, CLUEB, 1992.
[5] s. prastano, Biografia di gruppo della classe magistrale della provincia di Terra d’Otranto tra il 1900 e il 1915, Tesi di laurea, Università di Lecce, Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia, a.a. 1999-2000, rel. prof.ssa r. basso.
[6] Per l’ambito salentino, cito ad es. il caso del maestro Antonio Manieri (Nardò, 1857-1927), il cui ricordo è tuttora vivo negli anziani di Parabita che lo ebbero quale insegnante. Impegnato nella locale scuola elementare per 41 anni (anche in funzione di fiduciario), promotore di una banca per il credito popolare, nei suoi ultimi anni si oppose al fascismo e per questo fu soggetto a minacce e violenze. La vicenda – meritevole di approfondimento – mi è stata riferita da un altro insegnante, profondo conoscitore della storia parabitana, Aldo D’Antico, che ovviamente ringrazio.
[7] Relativamente alla produzione leccese, da menzionare, a titolo puramente esemplificativo, i seguenti lavori: m. attisani vernaglione, Primi raggi. Compimento al sillabario per la prima classe maschile e femminile, S. Severo, Tip. E. Dotoli, 1909; eadem, L’insegnamento della lingua italiana e del comporre nei suoi due gradi di classi inferiori e classi superiori. Relazione letta nella sala “Dante”. Lecce, 11 Settembre 1911, S. Severo, Tip. E. Dotoli, 1912; eadem, Relazione sul tema: mezzi pratici per guadagnar tempo nella scuola, Lecce, 22 Maggio 1919, S. Severo, Tip. E. Dotoli, 1919; m. de matteis, Vantaggi del lavoro educativo. Conferenza tenuta durante il Corso di lezioni agli insegnanti della Provincia nel Settembre 1900, Lecce, Regia Tip. Ed. Sal.na F.lli Spacciante, 1900; e. spezzaferri, Discorso letto nel saggio di ginnastica educativa dato dai maestri elementari del corso autunnale il 2 Settembre 1881 nella sala del R. Liceo Palmieri a Lecce, Lecce, Tip. Campanella, 1881; idem, L’educazione del popolo nelle condizioni presenti della società. Conferenza, Lecce, Stab. Tip. Scipione Ammirato “Prop. L. Cisaria”, 1884; idem, L’educazione morale e più precisamente la formazione delle buone abitudini. Relazione letta nelle Conferenze Magistrali, Lecce, Settembre 1911, Ivi, 1911.
Questi testi, insieme ad altri, sono presenti nella Biblioteca Provinciale di Lecce, nella collana ‘Scrittori Salentini’.
[8] Se ne può individuare un esempio in p. manca, Profili di insegnanti di scuola elementare a Carmiano e Magliano tra fine ‘800 e inizio ‘900, ‘L’Idomeneo’, Organo della Società di Storia Patria per la Puglia – sez. di Lecce, VII, 7, 2005, in particolare alle pp. 109-115; relativamente al prestigio conseguito dalle docenti nella Scuola Normale di Lecce, ved. r. basso, Donne in provincia. Processi di emancipazione attraverso la scuola nel Salento tra Otto e Novecento, Milano, Angeli, 2000, pp. 113-144.
[9] p. manca, La scuola di tutti. L’istruzione a Carmiano dopo l’Unità (1861-1911), Galatina, Edipan, 2004, in particolare le pp. 34-92; tra le monografie locali, ved. i più recenti lavori di a. brigante, Acquarica del Capo dall’Unità al fascismo. Lettura delle Deliberazioni del Consiglio Comunale dal 1861 al 1924, Tricase, Bleve, 2001, pp. 131-141, e di d. stefanizzi, Squinzano nell’Ottocento. Demografia, Economia, Società, Lecce, Conte, 2003, pp. 231-258.
[10] a. semeraro, Cattedra altare foro. Educare e istruire nella società di Terra d’Otranto tra Otto e Novecento, Lecce, Milella, 1984, pp. 149-160; g. caramuscio, Virtuosi e operosi. Modelli pedagogici e pratiche didattiche nella scuola salentina tra Ottocento e Novecento, ‘L’Idomeneo’, Organo della Società di Storia Patria per la Puglia – sez. di Lecce, VI, 6, 2004, pp. 81-128.
[11] a. semeraro, Cattedra altare foro, cit., pp. 239-242.
[12] Per un agile resoconto su questa letteratura ved. s. lanaro, Il Plutarco italiano: l’istruzione del popolo dopo l’Unità, in aa.vv., Storia d’Italia, Annali, IV, Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981, pp. 553-590; i. porciani, Il Plutarco femminile in s. soldani (a cura di), L’educazione delle donne, cit., pp. 297-318, e il più recente l. finocchi – a. gigli marchetti (a cura di), Editori e piccoli lettori tra Otto e Novecento, Milano, Angeli, 2004.
[13] Sulla fortuna di questo libro ved. g. ricuperati, La scuola nell’Italia unita, in Storia d’Italia, vol. V, I documenti, tomo II, Torino, Einaudi, 1973, p. 1706; più globali gli studi di a. asor rosa, La cultura, in Storia d’Italia, vol. IV, Dall’Unità ad oggi, tomo II, Torino, Einaudi, 1975, pp. 925-940; g. zaccaria, Cuore di Edmondo de Amicis, in Letteratura italiana, Le opere, vol. III, Dall’Ottocento al Novecento, Torino, Einaudi, 1995, pp. 981-1007.
[14] Rinomato, nel Cinquecento, il De instituzione foeminae christianae (1529), dello spagnolo Jean Luìs Vives, cit. da m.l. king, La donna del Rinascimento, in L’uomo del Rinascimento, a cura di e. garin, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 314.
[15] Sulla tipologia di questi testi si vedano le osservazioni formulate da a. dordoni, I libri di devozione dell’Ottocento (con particolare riferimento alla produzione milanese): proposte per una lettura critica, in ‘Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche’, 1994, I, pp. 59-102.
[16] Ved. l. guerci, Mente, cuore, coraggio, virtù repubblicane. Educare il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796-1799), Tirrenia Stampatori, Torino, 1992; idem, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796-99), Bologna, Il Mulino, 1999.
[17] Cfr. s. lanaro, Il Plutarco italiano, cit., pp. 571-582.
[18] Per un più ampio quadro di riferimento, si rinvia a g. ragone, La letteratura e il consumo: un profilo dei generi e dei modelli nell’editoria italiana (1845-1925) in Letteratura italiana, diretta da a. asor rosa, II, Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 688-698.
[19] a. semeraro, Cattedra altare foro, cit., pp. 227.
[20] Così presentava la rivista n. bernardini, Giornali e giornalisti leccesi, Lecce, 1896, p. 97.
[21] Per un approccio alle istanze pedagogiche del Positivismo, ved. il datato, ma sempre utile, volume di d. bertoni jovine, Positivismo pedagogico, a cura di r. tisato, Torino, UTET, vol. I, 1973; vol. II, 1976.
[22] Francesco Saverio De Dominicis era l’autore, alla fine dell’Ottocento, di maggiore notorietà e influenza sulla formazione iniziale e in servizio dei maestri. Tra i suoi testi più utilizzati, La dottrina froebeliana nel movimento della pedagogia moderna, 1882; Guida al tirocinio scolastico per le scuole normali ed i maestri, voll. 2, 1898; Idee per una scienza dell’educazione, 1900, tutti editi dalla casa torinese Paravia.
[23] Il Positivismo evoluzionistico, che negli anni dei governi Crispi tende a sostituire il Positivismo sperimentale, assume l’idea del miglioramento della specie come valore supremo, allargando la prospettiva dalla dimensione biologica a quella storico-sociale. Ne deriva un utilizzo potenzialmente in chiave nazionalistica e imperialistica da un lato, e uno sviluppo ideologico del socialismo gradualista dall’altro.
[24] Non è disponibile un’adeguata letteratura in merito, soprattutto in riferimento alle differenti realtà regionali; da segnalare r.s. di pol, Istruzione popolare e self-helpismo nel tardo positivismo piemontese, in g. chiosso (a cura di), Il libro per la scuola tra Sette e Ottocento, Brescia, La Scuola, 2000, pp. 321-356.
[25] Per il nesso istruzione-educazione, rimangono sempre validi i lavori – di orientamento diverso – di f.v. lombardi , I programmi della scuola elementare dal 1860 al 1955, Brescia, La Scuola, 1975, e di g. santoni rugiu, Ideologia e programmi delle scuole elementari e magistrali, Firenze, Manzuoli, 1980.
[26] a. semeraro, Cattedra altare foro, cit., pp. 227-228.
[27] Alcuni numeri di questa rivista sono consultabili presso la Biblioteca Provinciale di Lecce, mentre una più ampia disponibilità è presente nella Biblioteca dell’INDIRE di Firenze. Traggo queste informazioni dal volume curato da g. chiosso, I periodici scolastici nell’Italia del secondo Ottocento, Brescia, La Scuola, 1992, pp. 172-173.
[28] Questo libro appare modellato sulla tipologia dei Libri amicorum, uno strumento usato soprattutto nel Cinquecento nei Paesi nordici e in Germania: si può considerare una via di mezzo tra il diario dello studente e una raccolta di appunti scolastici e raccomandazioni, ad uso esclusivo dei giovani. Per approfondimenti, si rinvia a g.p. brizzi, Una fonte per la storia degli studenti: i ”libri amicorum”, in “Annali di storia della scuola e delle istituzioni scolastiche”, V, 1998, pp. 125-133.
[29] Di questi, l’ultimo non è presente nella Biblioteca Provinciale di Lecce; viene citato in Apprendendo e annotando, cit., Appendice. L’eredità della mamma è disponibile anche nella Biblioteca Nazionale di Firenze e nella Biblioteca comunale di Milano. Traggo le informazioni dal repertorio www.opac.sbn.it
[30] Ved. r. sani, L’editoria scolastico – educativa nell’Italia meridionale tra Otto e Novecento: il caso Sandron (1839-1925), in “Annali di storia della scuola e delle istituzioni scolastiche”, IV, 1997, pp. 53-84; dello stesso autore, il saggio panoramico, L’editoria scolastica nell’Italia meridionale dell’Ottocento, in Il libro per la scuola, cit., pp. 224-275.
[31] Tanto gentile, cit., pp.77-78.
[32] Per il ruolo giocato dall’insegnamento scolastico della Storia nel periodo post-unitario, ved. s. soldani, Il Risorgimento a scuola: incertezze dello Stato e lenta formazione di un pubblico di lettori, in e. dirani (a cura di), Alfredo Oriani e la cultura del suo tempo, Ravenna, Longo, 1985, pp. 132-172.
[33] Tanto gentile, pp. 306-310; questo mito storiografico, peraltro estraneo alla logica di formazione femminile in senso stretto, viene inserito in modo poco organico a quel micro-contesto.
[34] In proposito, ved. r. elze – p. schiera (a cura di), Il Medioevo. Immagini modelli e miti tra due popoli dell’Ottocento: Germania e Italia, Bologna, Il Mulino, 1986.
[35] Ved. in proposito i. porciani, Il Plutarco femminile, in s. soldani (a cura di), L’educazione delle donne, cit., pp. 297-317; il caso di una scrittrice di Plutarchi femminili in Terra d’Otranto è segnalato e illustrato da r. basso, Le donne celebri nella Provincia di Lecce di Maria Domenica Cretì, in eadem, Donne in provincia, cit., pp. 179-197 .
[36] Si tratta dei capp. II (pp. 16-18), IV (pp. 32-33), IX (pp. 74-76), XIV (130-133), XXXVII (pp. 382-384) di Tanto gentile, cit. I singoli gruppi femminili sono disposti secondo l’ordine alfabetico.
[37] Ivi, pp. 17.
[38] “La severa disciplina di studi cui la Agnesi si era sottoposta – assai contraria alla natura femminile – ne aveva irrimediabilmente minato il fisico e la mente, da cui era uscita abbandonando le scienze per darsi alla carità”, in ‘Nuova Antologia’, 1898, vol. 160, pp. 286-287.
[39] a. guidotti, Tanto gentile, cit., p. 42.
[40] Ivi, pp. 68-70.
[41] Ivi, cit., pp. 42-43.
[42] j.j. rousseau, Discorso sull’origine dell’ineguaglianza, Roma, Ed. Riuniti, 1979, pp. 84-85. Per uno sguardo all’Ottocento, h.a. cavallera, Storia dell’idea di famiglia in Italia. Dagli inizi dell’Ottocento alla fine della monarchia, Brescia, La Scuola, 2004.
[43] a. guidotti, Tanto gentile, cit., p. 189.
[44] Ivi, pp. 36-38.
[45] Ivi, p. 152.
[46] Ivi, pp. 366-371.
[47] Ivi, pp. 304-05.
[48] Ivi, p. 262.
[49] Ibidem, p. 263.
[50] Ivi, pp. 226-231.
[51] Ivi, p. 62.
[52] Ivi, p. 88.
[53] Ivi, pp. 19
[54] Ivi, p. 20.
[55] Per approfondimenti su questo tema, e, più in generale, sulla cultura del corpo nell’Italia post-unitaria, si rinvia a g. bonetta, Corpo e Nazione. L’educazione fisica, igienica e sessuale nell’Italia liberale, Milano, Angeli, 1991.
[56] Ivi, pp. 64-65.
[57] Ibidem.
[58] Ivi, p. 127.
[59] Ivi, pp. 170-179.
[60] Ivi, 151-161.
[61] Ivi, p. 190.
[62] Ivi, p. 203.
[63] Ivi, p. 33 sgg.
[64] Ivi, pp. 278-279.
[65] Ivi, p. 142.
[66] Ivi, pp. 126-130.
[67] Ivi, pp. 88-92.
[68] Ivi, p. 64.
[69] Ibidem.
[70] Ivi, pp. 218.
[71] Ivi, pp. 278-279.
[72] Ivi, pp. 95-96.
[73] Ivi, p. 104.
[74] Ivi, p. 306.
[75] Ivi, p. 138.
[76] Ivi, p. 225.
[77] Ivi, pp. 266-267.
[78] Penso alla Piccola vedetta lombarda del Cuore, o ai bambini personaggi del Corriere dei Piccoli, quali Italino (che vive al confine trentino tra Italia e Austria, e Luca Takko (presumibilmente tra Ucraina e Germania). Su quest’ultimo argomento c. triberti, Gli eroi del Corriere dei Piccoli, Ediz. Eurostudio, 1968.
[79] a. guidotti, Tanto gentile e tanto onesta, cit., p. 308.
[80] Ivi, p. 309.
[81] Ivi, p. 328.
[82] Ivi, pp. 223.
[83] Ivi, pp. 417-420.
[84] Ivi, pp. 427-436.
[85] Ivi, pp. 427-436.
[86] Ivi, pp. 77-81.
[87] L’eredità della mamma, cit., pp. 44-50.
[88] Ivi, pp. 166-184; 212-234.
[89] Ivi, pp. 223-225.
[90] Ivi, p. 31.
[91] Giudizi riportati dall’autore in Apprendendo e annotando, cit., Appendice, insieme ad altri sulle sue pubblicazioni (fra i quali quella – affettata e affrettata – del leader radicale Felice Cavallotti, di autorità e di esperti del mondo scolastico, espressi sia in forma di comunicazione personale, sia in quella di recensione su riviste).
[in Segni del tempo. Studi di storia e cultura salentina in onore di Antonio Caloro, a cura di Mario Spedicato, Galatina, EdiPan, 2008 pp. 241-263. Collana “Quaderni de L’Idomeneo”.]