La mia storia si è fermata
e quella degli altri
accade
come nelle locande di domenica
sono partiti tutti.
Chi si sentiva parte di un processo storico, chi sentiva la propria razionalità come espressione e articolazione di una più grande, sociale razionalità, chi identificava il senso della propria vita con quello della realtà stessa, non poteva non restare annichilito di fronte all’avanzare terrificante “del vero delle pietre”, (così come doveva sentirsi l’idealista Toma in un tempo di “arido” verismo), che scopre città morte, senza aurore né venti, senza senso né orizzonte; in cui le storie “si accatastano”, tra silenzi di pietra, tra valanghe di memorie rovesciate come le macerie degli edili: lì sono sepolti i colori dell’Eden, irraggiungibili, persi. Eppure, questo destino, intrecciato con quello di Toma, è a doppia faccia. Nel senso che Romano, come Toma, non intende piegarsi alla delusione, non accetta il “riflusso nel privato”. Sentire allora il vento dei ricordi che batte, schiudere le imposte sul passato significa non solo resistere alla tentazione di vedere nei ricordi il fazzoletto bianco della resa, cioè rifiutare un’immagine del passato come insopportabile fardello di crimini e orrori, quasi una sorta di buco nero della storia che ha inghiottito ogni senso di umanità e di libertà, ma sentire tutta la forza e grandiosità del processo storico che si è interrotto:
…fiumi di storia passata
che d’improvviso s’arrestavano, riunioni
dietro i casolari, e schiavi incatenati,
e Cristo, i Gracchi, le Leghe tra operai,
e in questo passare di fiumi di storia
io guardavo trasalivo meditavo.
L’assassino dei sogni
mi costringe a ricordi.
I sogni non sono una fuga dal presente, né una sorta di teleologismo capovolto, che cerca nel passato i segni per leggere il futuro. Anche nello smarrimento della constatazione della fine del “vento che avanza nella storia” (31) la sua resta una visione interamente, puramente laica. C’era, in quel passato, la speranza per l’affermarsi di una soggettività piena che sapesse e potesse esprimersi nel confronto come nello scontro; che potesse realizzarsi come eguaglianza di cittadini, come giustizia sociale; sogno di una società in cui la coscienza individuale è garanzia a se stessa, contro le astute strumentalizzazioni, le surrettizie manipolazioni, le interessate imposture. In questo senso, porre nel passato il filo che porta a un possibile futuro significa vedere in quel passato un valore che, come una meta regolativa, può ancora impegnare gli uomini nella lotta per il loro miglioramento:
forse questo è la storia: un sempre
camminare stanco e lento, senza soste,
ogni giorno negarsi al vero delle pietre.
Ha osservato Aldo Vallone che la passione civile e morale è una costante della poesia di Lucio Romano e quest’opera ne è, se ce ne fosse un ulteriore bisogno, la prova. Anzi, qui è possibile vedere meglio che altrove qual è in lui il rapporto tra la poesia e l’esperienza civile. L’arte è per Romano il luogo di ripensamento della prassi; il momento in cui le verità giudicano se stesse e poi si stemperano in dubbi, non solo esistenziali. Affidare all’arte il compito di ritrovare un “senso” alla storia significava evidentemente non appiattirla nel ruolo di fredda testimone del tempo, ma spingerla in quello ben più arduo di critica del tempo: l’arte può trovare il senso della realtà solo se si distingue da essa, se sa vedere oltre le macerie il filo che lega il passato al presente, cioè se sa cogliere il senso della speranza. Speranza, non certezza. Verità di uomini che non si rassegnano al vero delle pietre e guardano avanti come guidati da una meta regolativa, e si incamminano “compresa Maddalena”.
[“Apulia” a. XXVII, n. 2, giugno 2001]
Ricevo dal critico d’arte Massimo Galiotta, che ringrazio, questa correzione della didascalia che accompagna l’opera di Toma posta a corredo dell’articolo : “La versione nell’articolo non è la prima ma la seconda realizzata da Gioacchino Toma, conservata, per acquisizione (del 1892), alla GNAM di Roma (cfr. Mantura – Spinosa, 1995): esposta la prima volta alla Promotrice del 1877; l’anno successivo, chiamato da Morelli, Toma avrebbe preso la cattedra all’Accademia di Belle Arti napoletana (disegno ornato).
Nella prima redazione dell’opera (1874) è visibile la porticina della cella (cfr. De Rinaldi 1934, TAV. XII), mentre la finestrella è espressa solo dalla luce tagliente proveniente dalla stessa direzione.
L’attuale collocazione della prima edizione è Capodimonte, già collezione Marvasi, poi Gualtieri ed infine avv. Camillo Giussani di Milano (Cfr. M. Bancale, 1933).” [G.V.]