Ricordando Giocchino Toma
di Franco Martina
A una prima lettura il volumetto di Lucio Romano, Lettere di Gioacchino Toma a Eduardo Dalbono. Poemetto (1992-1996), Università Popolare Galatina 1997, si presenta come una sorta di interpretazione della figura di Gioacchino Toma filtrata e quasi caricata attraverso un processo di identificazione, che mira a dare linfa e voce alle aride possibilità letterarie del pittore di Galatina, rendendo così più viva e intima la comprensione della sua esperienza umana e intellettuale. Ma un esame più attento lascia scorgere un’altra possibilità. Versi come:
Ti sto scrivendo, Eduardo,
di Pietrina Strati, di mia madre:
lei-breve-madre, mia-madre-breve.
fanno sentire, al di là del riferimento storico-biografico, un sovrapporsi di esperienze, più che un semplice ri-pensare l’altrui esperienza. Insomma, ci sono momenti, passaggi in quest’opera, che fanno pensare a una immedesimazione nata non da una volontà interpretativa, quanto dalla condivisione di un comune destino, elaborato proprio grazie a un autonomo lavoro di interpretazione. Qual è il destino che Romano sente di condividere con Gioacchino Toma? Si ha l’impressione che tale destino vada individuato in una condizione di “esilio”. Certo, due forme diverse di esilio, che hanno però un medesimo effetto: un misto di delusione, di solitudine, di senso della sconfitta. A differenza di Toma, l’esilio di Romano non nasce dal rifiuto sociale espresso dal paese natale o comunque avvertito come tale, né dalla distanza rispetto a un mutato clima culturale, ma da una più precisa, complessa, a volte tragica condizione: quella del rifiuto di un “presente” sentito come estraneo, opaco, vuoto.
Ricevo dal critico d’arte Massimo Galiotta, che ringrazio, questa correzione della didascalia che accompagna l’opera di Toma posta a corredo dell’articolo : “La versione nell’articolo non è la prima ma la seconda realizzata da Gioacchino Toma, conservata, per acquisizione (del 1892), alla GNAM di Roma (cfr. Mantura – Spinosa, 1995): esposta la prima volta alla Promotrice del 1877; l’anno successivo, chiamato da Morelli, Toma avrebbe preso la cattedra all’Accademia di Belle Arti napoletana (disegno ornato).
Nella prima redazione dell’opera (1874) è visibile la porticina della cella (cfr. De Rinaldi 1934, TAV. XII), mentre la finestrella è espressa solo dalla luce tagliente proveniente dalla stessa direzione.
L’attuale collocazione della prima edizione è Capodimonte, già collezione Marvasi, poi Gualtieri ed infine avv. Camillo Giussani di Milano (Cfr. M. Bancale, 1933).” [G.V.]