I benefici economici del salario minimo

L’Italia è uno dei pochi Paesi europei a non avere una normativa sul salario minimo (esiste in 21 Paesi su 27), anche se ha un’elevata copertura della contrattazione collettiva (CCNL). È tuttavia molto diffusa la cosiddetta contrattazione pirata, con salari molto bassi e di gran lunga inferiori a quelli derivanti dalla contrattazione collettiva. Si tratta di un dato difficile da stimare, dal momento che è possibile – come rileva ADAPT (2022) – che la mancata indicazione del codice del CCNL nell’archivio di riferimento UNIEMES dipenda non dall’assenza del contratto ma dal mancato deposito presso il CNEL. In ogni caso, si può stimare una percentuale nell’ordine del 15% di lavoratori italiani non coperti dalla contrattazione. Oppure si fa riferimento a 729.544 per i quali mancherebbe il contratto, al 2021, e di 772.286 lavoratori al 2020. i lavoratori senza l’attribuzione di un CCNL presente in UNIEMENS. Emerge, dunque, che fra i 700 e 800 mila lavoratori non sono stati tutelati da un contratto di lavoro nell’ultimo biennio.

È in continuo aumento il lavoro povero, ovvero la condizione per la quale anche chi è regolarmente occupato riceve un salario al di sotto di quello che consente un’esistenza dignitosa, secondo gli standard prevalenti e secondo le soglie di povertà stabilite statisticamente (cfr. INPS, 2022). Si calcola, a riguardo, l’esistenza di ben 5,2 milioni di lavoratori dipendenti (26,7%) che nella dichiarazione dei redditi del 2021 denunciano meno di 10 mila euro annui.

L’Italia è uno dei Paesi al mondo con maggiore diseguaglianza distributiva, dovuta principalmente alla caduta di lungo periodo della quota dei salari sul Pil (e a un sistema fiscale che pesa molto sul lavoro dipendente). Quest’ultima sembra essere dovuta, a sua volta, alla maggiore accelerazione che l’Italia ha dato alle misure di precarizzazione del lavoro, come risulta dal nostro bassissimo EPL (Employment Protection Legislation). L’introduzione del salario minimo ha due effetti macroecomomici positivi: tiene alta la domanda interna e incentiva l’avanzamento tecnico, dunque guadagni di produttività. Il principale argomento contro è che l’introduzione del salario minimo costituisce un fattore di inflazione. Su questa tesi si è recentemente espresso Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, nelle sue considerazioni finali. Visco si è detto preoccupato per un ritorno dell’inflazione trainata dalla spirale prezzi-salari. Si tratta di un dispositivo all’opera negli anni Settanta, in base al quale gli incrementi dei prezzi derivanti da shock esogeni (in quella fase, l’aumento del prezzo del petrolio) venivano automaticamente traslati in aumenti dei salari monetari, portando il tasso di inflazione quasi stabilmente intorno al 20% e oltre.

Vi sono buone ragioni per le quali la preoccupazione di Visco è infondata. a) La gran parte dei contratti di lavoro o è scaduta o è stata rinnovata prima del ritorno dell’inflazione. Quasi nessuno di questi contratti, peraltro, prevede l’imposizione di incrementi retributivi qualora l’inflazione effettiva superi quella prevista al rinnovo. Più in particolare, il CNEL rileva che sono scaduti i contratti per oltre 7milioni e 700mila lavoratori, pari al 62% del totale. In più, sono molto diffusi i cosiddetti contratti pirata, sottoscritti da organizzazioni non rappresentative e che consentono alle imprese di competere al ribasso delle retribuzioni; b) L’Italia è l’unico Paese europeo nel quale i salari reali sono diminuiti dal 1990: -2.9% a fronte del +33% della Germania, del 31% della Francia e del +6% della Spagna. Stando ai dati diffusi dalla Fondazione Di Vittorio, prima della pandemia circa 5 milioni di lavoratori avevano un salario medio effettivo inferiore ai 10mila euro annui, facendo registrare 3 milioni di precari, 2.7 milioni di part-time involontari e 2.3 milioni di disoccupati ufficiali. L’Italia è l’unico Paese in Europa, insieme a quelli scandinavi e all’Austria, a non avere un salario minimo legale. Non a caso, l’ISTAT trova che la dinamica del Pil italiano, negli anni più recenti, non è stata influenzata dalla crescita dei consumi, quasi sempre al palo. È dunque impossibile sostenere che la ripresa dell’inflazione sia dovuta agli incrementi salariali ed è impossibile attendersi che ciò accada a breve. La ripresa dell’inflazione (8.4% secondo ISTAT) è semmai imputabile al combinato della riduzione dell’offerta di gas da parte della Russia e della speculazione.

[“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 17 marzo 2023]

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