di Antonio Devicienti
Vorrei che questo scritto somigliasse a certi disegni di Richard Serra: materica densità d’inchiostro raggrumato su foglio scabroso e ampio oppure scura traccia ricurva (semplice o raddoppiata o triplicata) – materia che sa farsi poi aerea e lieve – oppure orizzontali tracciati come linee di scrittura.
L’artista sparge sul tavolo i materiali, vi distende un foglio di carta giapponese o indiana fabbricata a mano per il suo recto e, agendo con un blocco d’acciaio o con uno stilo e col peso del proprio corpo, fa imprimere i materiali sulla carta: liberato dal pregiudizio realista o della verosimiglianza il disegno non rappresenta, ma letteralmente è lo spazio del suo farsi, il tempo del suo dispiegarsi, la tecnica stessa della e nella propria esecuzione.
Richard Serra bilancia il proprio peso e la propria forza, li varia e disegna agendo sul verso del foglio: egli dunque immagina e progetta il risultato del suo disegno, agisce sul negativo e sul non ancora visibile del disegno, compiendo un processo di previsione del risultato finale, stabilendo una distanza tra quello che va elaborando mentre agisce sul verso del foglio e il risultato, reso solo alla fine visibile, materializzatosi sul verso del medesimo foglio.
Se allora torno alla scrittura vi scorgo simile abbrivo non lirico e non narrativo, ma materico, costrutto cioè di ritmo e di suoni, creato anche dentro e traverso quello che non si porge immediatamente visibile, ma che, velato e velandosi, riceve forma e senso nel buio.
A Drawing in Five Parts (2005) di Richard Serra ricorda le onde di sabbia mosse dal vento sulla spiaggia di San Francisco (sua città natale) e anche i giardini zen dei templi di Kyoto – ricorda, appunto, o potrei scrivere suggerisce, accenna a, rimanda a: continuamente come scorrendo il disegno (senso nuovo del disegno: antiromantico e antirealista nello stesso tempo) è processo continuamente evidente, continuamente s-velantesi: gioco del rovescio, antidescrittivismo, continua revoca in dubbio, antifigurativismo.
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