Ma non è chiaro come si possa fare e soprattutto non è chiaro, al Governo, perché vi sia stata questa dinamica. Il crollo della detenzione di titoli da parte delle famiglie è il portato di un fenomeno globale ed epocale che si chiama finanziarizzazione: l’aumento del peso della sfera finanziaria sul Pil mondiale, a far data dagli anni Ottanta-Novanta e con forte accelerazione nei decenni successivi. Questo fenomeno è diffusamente studiato in letteratura e, in assenza della sua comprensione, appare difficile ipotizzare un rimedio che non sia velleitario. E infatti, Meloni propone qualcosa che non si sa come realizzare. Le alternative, nell’esame dei tecnici, sono due: o ridurre l’aliquota di imposta sui buoni del Tesoro acquistati da italiani, o vincolare le banche a detenerne sempre una quota. Non è chiaro come si possa rendere compatibile questa proposta con l’attuale normativa europea: infatti, la lettura più ragionevole della legislazione vigente indica, già da subito, che entrambe le opzioni sono vietate. Sfugge anche al Governo che occorrerebbe coordinarsi in Europa per una maggiore esposizione ai mercati finanziari anche per la tenuta della nostra democrazia. Come emerge da una ricerca di Carlo Cottarelli, dal dopoguerra la Storia del voto politico in Italia ha passato tre fasi: la prima, dal 1948 al 1976, con percentuali di voto intorno al 93%; la seconda, dal 1976 al 2006, con percentuali pari mediamente all’83%; la terza, dal 2006 al 2023, con un 63% di media e una perdita di circa 20 punti rispetto al periodo precedente. Le ultime elezioni regionali in Lombardia e nel Lazio hanno contribuito clamorosamente a rendere chiara la forte propensione all’astensione da parte degli italiani. Il “sono tutti uguali” dipende sempre più dalla dipendenza della politica dai mercati finanziari. Le promesse elettorali, infatti, sono sempre più svincolate dal quadro operativo nel quale si trovano tutti i Governi, ovvero dalla necessità di acquisire credibilità da parte di chi acquista titoli di Stato. La cui vendita, infatti, è la precondizione essenziale – nell’assenza di una Banca centrale che possa e voglia acquistarli – per manovrare la politica fiscale e, dunque, per tener fede agli impegni. Tecnicamente, il debito pubblico in rapporto al Pil è sostenibile se il tasso di crescita è maggiore del tasso di interesse reale. Solo in questa condizione, i governi sono in grado di generare un gettito fiscale di ammontare tale da consentire il pieno rimborso dei debiti con il pagamento degli interessi dovuti. I Governi sono persuasi che la condizione di sostenibilità si raggiunga solo mediante riforme che fanno crescere il Pil o, alternativamente, attraverso misure di consolidamento fiscale che riducano l’indebitamento netto. In tal senso, ciò che occorrerebbe capire è che queste dinamiche impongono una gerarchia finanza-politica per la quale la finanza domina sulla politica. Solo il Quantitative Easing della BCE di Mario Draghi ha ribaltato l’ordine gerarchico, stabilendo che è la politica – sotto forma di decisioni discrezionali della Banca Centrale – a stabilire quantità e rendimenti dei titoli degli Stati sovrani e, per questa via, a garantire l’esercizio di maggiore democrazia nell’Unione Europea.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 13 marzo 2023]