Invitato dall’Associazione Operaia di Squinzano, un sacerdote originario di Vernole, don Cosimo De Carlo, tiene un discorso nel contesto di una cerimonia funebre per i locali caduti nella guerra di Libia[3]. Docente e pubblicista, chiamato da più parti a cerimonie ufficiali (non solo di tipo prettamente religioso) per la sua riconosciuta abilità retorica, egli è senza dubbio l’oratore sacro più presente in questo tipo di celebrazioni e nella pubblicistica relativa. La sua parola, sia parlata che scritta, attraversa quasi l’intera metà del Novecento, rivelandosi tra le più sollecite a recepire le potenzialità insite nel panorama politico nazionale e locale fino all’adesione al regime fascista, da lui individuato quale compimento di un processo storico.
Questo si svolge, seguendo nel tempo gli scritti dell’ecclesiastico salentino, intorno al nesso indiscindibile tra Religione e Patria, dichiarato all’inizio e in conclusione del discorso sulla Libia. La vittoria delle truppe italiane è, a suo giudizio, dimostrazione dell’invincibilità di tale alleanza, anche in risposta alla “setta calunniatrice”, cioè la Massoneria, identificata da don De Carlo quale “nemico interno” perché esclude dai valori nazionali la religione cattolica. La cifra più alta della simbiosi tra Religione e Patria è data dalla “guerra santa”, come tale legittimamente accordabile con la sensibilità degli abitanti del Tallone d’Italia, per lunghi secoli esposti alle scorrerie dei pirati saraceni e dell’Impero ottomano, culminate con l’assedio e la caduta di Otranto nel 1480. La sacralità del conflitto vittorioso rinnova le imprese della Lega lombarda contro il Barbarossa, dei crociati in Terrasanta e la lotta verso il nemico giurato della civiltà e del Cristianesimo che ne è a fondamento: il Turco. Di questi il sacerdote rimarca i tratti che lo rendono incomparabile anche rispetto alle altre confessioni non cristiane: perché per noi la Moschea non ha neppure il merito di essere larvata dall’apparenza religiosa che amalgama la Sinagoga dell’Ebreo, o lo squallido Tempio del Protestante, ma è il covo ove s’annida il pervicace congiurato che spera, nella certezza di non raggiungere altro che un ipotetico lembo dell’Arem invidiato al Sultano gavazzante nelle orgie di brutali piaceri[4].
Lo prova anche l’atteggiamento del sultano Maometto II (che, dopo la presa di Otranto, non nascose la propria ambizione su Roma) di livello morale inferiore persino a quello di Attila, rispettoso della richiesta papale di risparmiare la Città Eterna. Don De Carlo ritiene la guerra consona anche alle aspettative dell’opinione pubblica nazionale, desiderosa di riprendersi terre un tempo sotto il dominio dell’Impero Romano. Ma non si tratta solo di un’atto di riappropriazione o di vendetta postuma («Le macchie di sangue che sul terreno della storia si dilatano vogliono essere lavate col sangue»), ma anche perché i territori oggetto dell’interesse italiano recano ancora «le impronte e le vestigie d’una civiltà che fu nostra, e decadde solo per tradimento ed astuzia». Il De Carlo ritiene a fortiori legittima la guerra per la riconquista della “Cirenaica” e della “Tripolitania” (riprendendo l’antica denominazione romana), perché l’indolenza delle popolazioni indigene le ha ridotte da fiorentissime a «sterili lande, a spiaggie abbandonate e deserte» e soprattutto per un motivo di fondo: «là dove il forte seme di una razza dominatrice ha gittate le basi di un edificio di civiltà, la erede di questa razza deve diffondere la sua tradizionale luce ristoratrice e rinnovatrice[5]».
La conquista italiana, infatti, è sempre stata tesa ad avanzare tra i popoli conquistati le insegne della civiltà, fra gli orrori della barbarie, a far risplendere il faro della luce tra le tenebre dell’ignoranza, ad intrecciare corone di fiori là dove erano le pesanti catene del servaggio, a pronunciare la parola dell’amore là dove vigeva la brutale condizione di schiavitù, e tutto questo all’ombra della Croce[6].
Completa la fondazione morale e religiosa del conflitto la rappresentazione demoniaca del nemico: «Questo popolo nomade, quest’accozzaglia di zingari cenciosi, quest’ibrido connubio di pirati e predoni, eterni giurati nemici del nome di Cristo e della Croce di Lui, questo popolo che dei popoli conquistatori ha avuto soltanto il torto della barbarie, senza sapersi procurare i meriti della civiltà […]», è stato capace di «atti di crudeltà consumati sui cadaveri dei nostri soldati, con la voluttà del bruto, con la ferocia del cannibale mutilati, calpesti, crocefissi e appesi nelle moschee, perché la loro vista saziasse le immonde brame […]»[7].
La validazione etica della guerra trova il suo riscontro estetico nel profilo del combattente italiano, il cui viso «uniformemente bello, limpido, sincero, aperto» riflette la varietà dei caratteri nazionali (esemplificati attraverso alcuni stereotipi regionali), saldamente accomunati dalla medesima formazione e professione di fede:
[…] rispecchi esso l’ingenuità delle Puglie, o la gagliezza del Napoletano, mostri l’austerità dell’Abruzzo, o la serietà di Roma, sorrida con la signorilità di Firenze, o con la squisitezza del Piemonte, dia il lampo dell’intraprendente Lombardo, o ci sorrida con la vetustà di Venezia, s’avanzi con la fierezza del Calabro, o con l’orgoglio del Siciliano, è un’impronta comune sulle labbra, sulla fronte, nelle pupille di tutti: l’impronta religiosa, l’insegna cristiana[8].
Non dissimile da quella di don De Carlo, per certi aspetti, si presenta la missione culturale e sociale di Giulia Lucrezi-Palumbo, pur nella diversità della formazione e dell’itinerario ideologico[9]: il tema della Patria, infatti, può essere legittimamente adottato quale filo conduttore delle esperienze della professoressa leccese, in grado di legare più agevolmente i differenti momenti di un travaglio ideologico che la vede attraversare, nella sua intensa esistenza, il laicismo radicale post-risorgimentale, il pieno consenso al fascismo sino al sofferto approdo alla fede cristiana. Docente di materie letterarie presso la Scuola Normale cittadina (poi Istituto Magistrale), dotata di una preparazione umanistica e di un carisma eccezionali, la docente costituirà, lungo l’arco di circa quarant’anni, un punto di riferimento per l’opinione pubblica leccese che ascolterà la sua parola in occasione degli eventi più significativi della vita nazionale.
Anche la “signora delle lettere” è chiamata a celebrare la prima autentica conquista coloniale italiana. Le autorità governative orchestrano una campagna tesa a solennizzare l’avvenimento, configurandolo come l’entrata del giovane Regno d’Italia (nel cinquantenario della sua nascita) nel novero delle grandi potenze internazionali. Sparute le voci discordanti dal coro encomiastico, che vede in prima linea letterati quali Gabriele d’Annunzio e Giovanni Pascoli. È in particolare dal famoso Discorso di quest’ultimo (La Grande Proletaria si è mossa) che la Lucrezi prende spunto per l’impostazione della sua conferenza: in questa fase, infatti, ella risulta ideologicamente vicina al socialismo umanitario, solidarista e paternalista del poeta del ‘fanciullino’[10].
La Nostra sottolinea immediatamente la continuità storica dell’impresa libica non solo con le recenti acquisizioni risorgimentali, ma anche con il passato remoto, simboleggiato dall’ombra di Scipione Africano, che trionfò sull’africana Cartagine. Gli italiani del 1911 si sono dimostrati degni fratelli di quelli guidati da Garibaldi, superando il senso di inferiorità nutrito nei confronti dei “Padri della Patria” e di quella generazione, ma hanno dimostrato soprattutto alle grandi potenze il valore e la legittimità della nazione italiana ad aspirare ad una politica espansiva, senza tutele da parte delle Nazioni più forti. Non occorre, pertanto, ricercare altre motivazioni dell’aggressione alla Libia:
Non indaghiamo se o quanto sia giusta o giustificabile la guerra di oggi: a che risalire il passato quando così fulgido è il presente? È bene ciò che a bene ridonda, e l’ora gloriosa che si vive val quanto l’ora gloriosa che si ricorda. Noi vincemmo: e non solo gli Arabi e i Turchi, ma anche e particolarmente il convincimento e la coscienza europei.
Nella lettura del Discorso pascoliano, Giulia non manca di sottolineare come la conquista della Libia sia soprattutto finalizzata a colmare il divario politico-culturale tra le grandi tradizioni italiane del passato e la condizione di inferiorità del presente, della quale l’emigrazione di milioni di connazionali rappresenta uno degli aspetti più drammatici. La conquista di un territorio, da sottoporre a un regime di occupazione coloniale, significa per l’Italia porre gli emigranti italiani in una condizione di “emigrazione protetta”, nonché trovare nell’altra sponda del Mediterraneo il completamento dell’economia nazionale. Ma la Lucrezi individua un’altra differenza rispetto alle lotte risorgimentali:
L’Italia si è presentata, dice il Pascoli, a questa guerra, grande e potente per mare. Ma altresì per terra. E quest’ultima forza ne la guerra nova, oh sapete di chi è? Di chi vien da la gleba, dai campi, e ha la pelle adusta e le mani callose, e non sa nulla di glorie passate. È la forza nuova, che ha maturato le energie congenite de la razza, a la vanga, a la zappa, a la miniera, al piccone, al volante de la macchina rumorosa. È la forza vergine del popolo che nemmeno a l’epoca del riscatto rispose all’appello, e che ora, maturata in cinquant’anni di assiduo, paziente lavoro, opera con la forza di un ingranaggio meravigliosamente preparato e costrutto[11].
La guerra di Libia, allora, raggiunge un più alto grado di consapevolezza rispetto alle guerre d’indipendenza, perché ha coinvolto nella partecipazione, militare ed emotiva, strati sociali prima indifferenti al sentimento patrio. L’esortazione di Pascoli alla concordia nazionale e alla cessazione della lotta di classe viene fatta propria dalla conferenziera, nella difesa del valore educativo della vita militare, che unifica classi, mestieri, le diversità regionali. La Lucrezi coniuga il tema della coesione nazionale con la prefigurazione di un sistema corporativo, citando il poeta: «Ciò che perennemente e continuamente si muta, non è. La classe che non è per un minuto solo composta dagli stessi elementi, la classe in cui, con eterna vicenda, si può entrare e se ne può uscire, non è mai sostanzialmente diversa da un’altra classe».
Integrano l’esposizione dell’ideologia di tale “nazionalismo sociale” il richiamo alla superiorità del “gentil sangue latino” e, analogamente a quanto richiamato da don De Carlo, la rappresentazione satanica del nemico, incapace di “reggere l’imperio”, abituato agli ozi dell’harem, privo di ogni caratteristica umana, perché investe «l’asilo dei morenti, uccide da tergo medici e infermieri, viola tutte le leggi umane e divine, fin la santità dei cadaveri». Il luogo comune degli “Italiani brava gente” viene contrapposto ai comportamenti degli Arabi:
Non è questo il sentimento, sebben non la voce, d’odio profondo e implacabile che sale dai nostri cuori quando ci indulgiamo a pensare che hanno crocefisso, accecato, propagginato, mutilato i fratelli nostri, essi, le iene del deserto di Libia, quando noi li abbiamo sfamati, curati, quando ne abbiamo salvato e carezzato e adottato i figliuoli? Oh, sì! La guerra è fatta di sangue e “santo e lacrimato è il sangue per la patria versato”, ma la ferocia non si punisce che con l’odio e con la vendetta[12].
I toni trionfalistici, vendicativi e, a tratti, militaristici della conferenza vengono improvvisamente interrotti da Giulia, con una nota personale e familiare: la malattia (che in seguito si rivelerà mortale) di un figlio in tenera età. Questo richiamo, che le serve per sentirsi prossima alle madri dei combattenti, rappresenta l’altra faccia della guerra: non quella estetica, della morte seminata sui nemici dall’alto degli aerei, non quella dell’esercito che fraternizza con la popolazione civile sottomessa, non quella dei continuatori di Scipione, ma quella che colpisce negli affetti familiari. La parentesi rimane isolata, e il discorso, dopo la non casuale evocazione dell’ideale ricongiunzione tra i caduti di tutte le recenti guerre italiane, si chiude con un richiamo alla storia di Terra d’Otranto, la quale
ha anche uno scopo di vendetta più remota, di doverosa riparazione de l’eccidio compiuto in una de le più fiorenti terre di Puglia più che cinque secoli or sono. A Otranto, ne la bella cattedrale, è un altare dal quale pare guardino con le vuote occhiaie i teschi di ottocento idruntini caduti, dopo la strenua difesa de la terra loro, sotto la scimitarra musulmana. Essi chiedevano vendetta, e vendetta è stata fatta oggi[13].
Entrambi gli interventi espongono una narrazione della patria: declinata in senso religioso nel primo caso, orientata ad una visione più politica nel secondo. In essa, momenti e figure del glorioso passato scorrono come in un album di ricordi, come in un altro (più famoso) racconto, l’Inno di Mameli. Entrambi si rifanno, in modo più o meno esplicito, all’impegno per proseguire nel solco della propria tradizione, con la stessa dedizione con cui si difenderebbe l’onore familiare, in virtù di una superiorità palesemente manifestata nel passato e quindi destinata a riaffermarsi. Non sfuggono, ai due intellettuali, le diversità regionali non ancora amalgamate dal mezzo secolo di vita unitaria. Ma se don Cosimo De Carlo fonda l’identità italiana sul Cattolicesimo, fonte di civiltà, la Lucrezi, guardando più al futuro, ne rinviene le tracce nella maturazione della coscienza nazionale, in grado di superare la condizione di minorità rispetto alle grandi potenze. Da questa prospettiva anche la storia della Terra d’Otranto si inserisce a pieno titolo nella tradizione difensiva dell’onore nazionale: non a caso i due officianti rammentano il ruolo svolto da Otranto nel 1480 quale antesignana del martorologio patriottico e quindi della riscossa nazionale.
All’elaborazione del canone patriottico concorrono quindi, con accenti e modalità differenti, consolidate tradizioni discorsive: la soteriologia cristiana, la struttura parentale, il codice dell’onore, l’analogia tra uomo e natura[14]: a queste, non molto più tardi, si aggiungerà, con caratteri ancora più decisi e aggressivi, l’esaltazione della stirpe, presente nelle due conferenze ad uno stadio già abbastanza avanzato.
Note
[1] Al riguardo, Luigi Ganapini, Il nazionalismo cattolico. I cattolici e la politica estera in Italia dal 1871 al 1914, Roma-Bari, Laterza, 1970; Giovanni Spadolini, Giolitti e i cattolici. 1901-1914, Firenze, Le Monnier, 1960.
[2] Fabio Grassi, Il tramonto dell’età giolittiana nel Salento, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 7-38.
[3] C. De Carlo, In memoria degli Eroi caduti sui campi della Tripolitania e della Cirenaica. Elogio funebre letto nella Chiesa di Squinzano il 12 dicembre 1911, Lecce, RegiaTipografia Editrice Salentina F.lli Spacciante, 1911.
[4] Ivi, p. 16.
[5] Ivi, p. 18.
[6] Ivi, pp. 16-17.
[7] Ivi, p. 11-12.
[8] Ivi, p. 19.
[9] L’analisi di un altro suo discorso ufficiale è stata da me pubblicata su questa Rivista: L’officina del sentimento. Parola pubblica e scrittura privata di donne salentine negli anni della Grande Guerra. Giulia Lucrezi-Palumbo dopo la pace di Versailles, V, 2009, 3, pp. 6-9.
[10] Per gli Eroi d’Affrica (A proposito del discorso di Pascoli), Conferenza tenuta nella Regia Scuola Normale di Lecce il 14 dicembre 1911, Lecce, Tip. Editrice Leccesse E. Bortone e Miccoli, 1912.
[11] Ivi, p. 14.
[12] Ivi, p. 20.
[13] Ivi, p. 28.
[14] Ved. in proposito Alberto Mario Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000.
[“Controcanto. Rivista culturale del Salento”, VIII, 4, dicembre 2012, pp. 3-8.]