di Giuseppe Virgilio
1. L’8 settembre 1943
“Nam cupide conculcatur nimis ante metutum”
“ché bramosamente ci calpesta quel che troppo fu prima temuto”
“Descendunt statuae restemque sequuntur…”
“Cadono dal loro piedistallo le statue, seguendo la fune…”
“…deinde ex facie…
fiunt urceoli, pelves, sartago, matellae…”
“…poi, di quel volto…
si fanno orcioli, catini, una casseruola, pitali…”
“Ad generum Cereris sine caede ac vulnere pauci
descendunt reges et sicca morte tiranni”.
Sono pochi i re che discendono al genero di Cerere
senz’essere stati uccisi e ferito, di pochi tiranni non gronda di sangue la morte”.
Tranne il primo, di Lucrezio, De rerum natura, V, 1140, gli altri sono versi di Giovenale, Satira X, v. 58; 63-64; 112-113, con cui il poeta rivive drammaticamente la morte di Seiano sotto il principato di Tiberio. Non si trascrivono qui per amore della citazione e dell’accessorio, ma perché li venivamo rimemorando a proposito della fine di Mussolini, mentre con un gruppo di amici, una lontana sera di settembre del 1943, sedevamo sulla spalletta del ponte al Canale de l’Assu, nei pressi della villa Greco, lungo la strada che da Noha porta a Collepasso, al fine di passare il tempo senza annoiarci. Decresce la luce del giorno al tramonto. Ed ecco, da lontano, voci di donne, di fanciulli, di uomini che gridano tutti per unanime consenso: “L’armistizio! L’armistizio!”. La campagna circostante si desta come da uno stato di sopore. Un fuoco si vede lontano, poi un altro in direzione opposta, quindi da tutte le parti salgono in alto delle grandi fiamme. Sono i falò con cui i contadini dei nostri campi e della nostra città salutano in segno di allegria la fine della guerra, la sera del mercoledì 8 settembre 1943.