I soldati marciavano flagellati in viso dalla pioggia e con tutti gli indumenti bagnati fradici. Né c’era speranza di trovare o di potere allestire ricoveri dove asciugarsi. Giunti dopo anche otto dieci ore di cammino in un campo di sosta imbevuto di acqua dovevano risalire i fianchi delle montagne in cerca di qualche baita nella quale ammassarsi. Il passaggio dei mezzi pesanti creava sulle vie strisce profonde di fango. I ruscelli trasformati in torrenti ne allagavano spesso lunghi tratti, cosicché col buio notturno molti soldati finirono con lo smarrirsi e anche col precipitare nei burroni nei quali peraltro furono spinti non pochi automezzi guasti che ingombravano il passaggio. Il morale crollava venendo spontaneo domandarsi a chi, in quale tranquillo ufficio, era venuta in mente l’idea di una offensiva simile nell’approssimarsi del quarto inverno di guerra.
Tuttavia negli ultimi due giorni gli uomini riposarono nei numerosi baraccamenti costruiti a ridosso delle prime linee. La vista poi su ogni piazzola disponibile delle potenti artiglierie tedesche di tutti i calibri infondeva fiducia sull’esito dell’imminente battaglia. Il servizio tedesco di fotografia aerea aveva fornito mappe nuove su cui erano nettamente visibili trincee e postazioni nemiche, sostituendo così le vecchie carte austriache nere e illeggibili. Comunque affinché le nuove armi non venissero individuate si erano evitati i soliti tiri di inquadramento. Del resto ai tedeschi bastava sparare un colpo soltanto e osservare a quale distanza dal bersaglio era caduto. Usando speciali tabelle con le quali poi si teneva conto della distanza, della intensità del vento, della temperatura, dell’umidità dell’aria e dell’usura della bocca da fuoco si poteva centrare l’obiettivo anche con la nebbia.
L’artiglieria italiana pareva inerte. Nell’ipotesi di un inizio delle operazioni il 22 ottobre aveva battuto senza convinzione i soliti obiettivi dai quali tedeschi e austriaci cercarono di tenersi lontani. Il tiro si era poi spento. Una vera salvezza per le fanterie ammassate nelle ore precedenti l’attacco nelle trincee coperte, nei camminamenti e nei ricoveri su cui un tiro di contro preparazione avrebbe causato perdite disastrose. Dopo la guerra si sarebbe saputo che tra i maggiori responsabili militari italiani non c’era comunque unità di visione strategica. Cadorna, ipotizzando una offensiva dell’Austria nella primavera col rinforzo delle truppe provenienti dalla Russia sconfitta, aveva comandato la difesa assoluta nel settore della seconda armata del generale Capello. Costui però non escludeva la possibilità di attaccare in condizioni favorevoli considerando buoni i piani già predisposti a tale necessità. Per di più Badoglio, suo subordinato come generale di corpo d’armata, aveva nella mente le strategie di Annibale e di Napoleone, cioè lasciare avanzare per poi annientare. Il fatto è che nessuno tra i comandanti italiani poteva sapere che stava per essere abbandonata la vecchia strategia degli attacchi frontali e del tenere i monti per tenere le valli. Era ideato un nuovo sistema con gli attacchi a valle e a monte e con le manovre di infiltrazione, di aggiramento e penetrazione da parte di nuclei di assalitori preparati e autosufficienti, cosa che avrebbe disorientato il soldato italiano abituato a sentirsi difeso sui fianchi e dall’artiglieria. A parte ciò era indispensabile portare scompiglio nelle retrovie neutralizzando il delicato sistema delle comunicazioni e far tacere le batterie italiane con tiri precisi anche con il gas che si infiltrasse attraverso le feritoie delle postazioni in caverna.
Nelle ultime ore del giorno 23 ottobre gli ufficiali tedeschi e austriaci che dovevano comandare i reparti in prima linea si sentirono certamente smarriti a osservare il dispiegarsi delle imponenti linee italiane dal largo fondovalle dell’Isonzo con i suoi villaggi diroccati fino alle scoscese alture boscose intervallate da fasce di rocce entro le quali erano scavate le fortificazioni perfettamente visibili con le loro minacciose feritoie. Le nuvole, diradandosi a tratti, lasciavano intravedere i più alti crinali e l’orlo della montagna che toccava il cielo. Un brivido freddo di angoscia invadeva quegli uomini allo svelarsi lassù dei lunghi sistemi di trinceramenti protetti dai reticolati. Il nemico italiano aveva avuto delle informazioni e si era messo in agguato dal momento che, non avendo disturbato le pattuglie di avanscoperta, pareva avere spostato indietro il grosso delle forze. Nell’ultima luce della vigilia quando il cielo sembrava liberarsi di nuvole e nebbie si vedevano scintillare sotto la neve fresca le cime dei monti trasformati in fortezze.
Ma con l’avanzare della notte il tempo era nuovamente peggiorato. Nuvole scure coprivano il cielo e nascondevano le cime delle montagne. Non traspariva una sola stella. Un buio tetro regnava nella valle. Nessuna luce tradiva la presenza delle migliaia di uomini che vi si trovavano. Faceva molto freddo. Le truppe in quota furono investite dalla neve, quelle in valle avvolte in un manto opaco stillante pioggia sottile e insistente. Qualche reparto ne approfittò per spostarsi in valle e accorciare la distanza del primo balzo e non fu disturbato nonostante lo sciabolare dei riflettori nella nebbia.
Alle ore due del 24 ottobre, al segnale della prima salva aprirono il fuoco migliaia di cannoni con uno schianto spaventoso moltiplicato dall’eco contro le pareti delle montagne. Lo spazio buio era pieno dei loro urli, alti, bassi, laceranti, cupi, vicini e lontani, come se nell’atmosfera e per tutta la lunghezza della vallata corressero sibilando enormi fasci di serpenti velocissimi. Una tempesta di mine e di granate a gas si rovesciò sulle linee italiane. Nello stesso tempo i grossi calibri facevano opera di distruzione sui centri arretrati di comando e di tiro avversario utilizzando il gas anche su questi bersagli. I riflettori italiani si andavano spegnendo uno dopo l’altro.
Dopo questo primo finimondo che soffiò in aria la linea avanzata ci fu una pausa fino alle sei e mezza quando, avendo atteso che si diradasse il gas in valle, riprese il tambureggiamento delle artiglierie che durò fino alle otto. La distruzione materiale fu enorme. Trincee spianate e rifugi in cemento armato schiacciati dai colpi delle bombarde. Brecce larghissime nelle spesse fasce di filo spinato e postazioni di mitragliatrici spazzate via. Nella conca di Plezzo da dietro le trincee austriache del Ravelnik, piccola altura osservatorio in valle, dopo l’apertura con un congegno di accensione simultanea, vennero lanciate contro la prima linea italiana da tubi metallici infissi nel terreno ben novecento bombole di gas a due componenti, una irritante che induceva il soldato a togliersi la maschera e il fosgene che così uccideva prima di dovere superare gli strati di garza dei filtri. Stessa fine per gli animali da soma, cavalli e ogni altro essere vivente. Il gas colpì inesorabile le riserve ammassate in forre e caverne tra l’Isonzo e la strada di fondovalle a nord del sobborgo di Oltresonzia. Visioni d’orrore per le truppe avanzanti. La morte per ottocento uomini si era mascherata di nebbia notturna. Divisi come in gruppi di cera, alcuni nell’immobilità d’attesa del combattimento, altri riversi a terra nel vano tentativo della fuga. Ma i più erano rimasti seduti e addossati alle pareti col fucile tra le ginocchia. Dalle coperture rotte dalle bombe stillavano gocce d’acqua sui visi dei soldati che pareva piangessero.
Su tutto il fronte intanto muovevano le masse d’attacco, anche se alcuni reparti, approfittando del fumo in valle erano già da alcune ore riusciti a spostarsi in avanti. La massa d’urto non trovò resistenza e con una manovra contraria a tutte le concezioni strategiche precedenti dilagò in valle prima ancora di scacciare i nemici dalla prima linea di monti. Aveva preso il via uno dei piani più audaci di tutta la prima guerra mondiale. Se si osserva una carta storica della battaglia di sfondamento si nota che a destra e a sinistra della valle d’Isonzo all’altezza di Caporetto due lunghe formazioni montuose costituivano una prima e una seconda linea potentemente fortificate dagli italiani. Monte Nero era la punta avanzata a est, mentre la catena del Kolovrat col Matajur difendeva i passi alle valli sopra Cividale. Si avvicinavano come a chiudere lo spazio vallivo nella punta nord con il Rombon e Plezzo, a sud con lo Jeza e Volzana, fronteggianti la testa di ponte di Tolmino. In questa zona interna dilagarono il primo giorno gli austrotedeschi, penetrando dalle due porte e puntando a congiungersi a Caporetto. Il primo disorientamento italiano avrebbe facilitato il contemporaneo attacco contro le due linee di fortezze montuose e fatto crollare l’intero sistema difensivo.
Tra il 24 e 25 ottobre si completa lo sfondamento. Il 26 è il giorno del crollo italiano. Occupate tutte le alture che guardano la Val di Isonzo, il 27 gli attaccanti si affacciano sulla pianura. Alle loro spalle si lasciano le lunghe file di prigionieri e di fronte sulle strade avvallanti vedono i loro nemici scendere disordinatamente e andare ad aggiungersi alle colonne di artiglieria in ritirata. Quando quelle file scomposte vengono fatte segno dalle mitragliatrici dei reparti di assalto, tutto diventa scompiglio e fuga, con l’abbandono di tutti i materiali.
Era cominciato già dalle prime ore della battaglia lo sbandamento degli italiani. I primi a darsi alla fuga furono gli artiglieri colpiti dalle granate a gas, rimasti senza ordini dai comandi per la rottura dei cavi telefonici e sorpresi dal sopraggiungere dei reparti nemici infiltrati. I fuggitivi per giustificare l’abbandono delle loro posizioni e delle armi, dicevano sia ai loro superiori che a elementi delle truppe di rincalzo di aver ricevuto l’ordine di ritirarsi, così in poco tempo lo smarrimento e la confusione furono enormi. Già il secondo giorno le strade che dalle alture sulla valle di Isonzo portano alla pianura friulana erano affollate dalle masse in rotta le quali, incontrando le truppe che salivano per tamponare le falle cercavano di convincerle a tornare indietro ingigantendo, per discolparsi, la gravità della situazione. In mezzo a questa gente che si incontrava e alimentava il caos c’erano le ordinate schiere in ritirata, scoraggiate e incredule che in poco tempo si stesse producendo tale disastro. Dopo anni di guerra, di sacrifici, di visione di orrori e del fantasma della propria morte, nella remota profondità dell’animo del soldato era riposta la domanda tormentosa del perché della guerra e del perché le classi dirigenti non riuscissero a trovare un accordo di pace per decine di milioni di combattenti e per i loro popoli.
Per fuggire più in fretta possibile, utilizzando anche sentieri difficili o passando per i campi, veniva abbandonato tutto ciò che non serviva più, fucili, elmetti, munizioni, zaini. Per liberare automezzi e carrette di materiale ingombrante e farvi salire le persone veniva buttato di tutto ai lati delle strade, dai pezzi di armi pesanti ai bauli, ai mobili e alle attrezzature dei posti di comando. Qualcuno, ferito, dolorante o sfinito per la stanchezza usava il fucile rivolto a terra come bastone o gruccia. Dovendo pensare al sostentamento i fuggiaschi erano di converso carichi della roba da mangiare presa nei magazzini e non certo da regalare all’esercito che tallonava. Si aggiungevano le bottiglie di vino e di alcolici che, arraffate per sostenere lo strapazzo della marcia, trasformavano in bruti quegli uomini. In mezzo a quella folla in grigioverde si mescolavano gli abitanti delle valli che lasciavano le loro case. I carri erano ingombri di masserizie su cui mezzo arrampicati stavano donne e bambini piangenti.
I vincitori intanto, scendendo la valle del Natisone punteggiata dagli incendi dei depositi, possono vedere, in momenti in cui il cielo si apre, lontano, l’Adriatico. Cividale è deserta e in fiamme, sia perché già presa di mira dai grossi calibri, sia perché è stato appiccato il fuoco agli stabilimenti industriali. Sono stati abbandonati molti depositi di viveri, scatolame tè caffè riso liquori, in quantità sufficiente per mantenere intere divisioni.
A Udine quasi tutti gli abitanti sono fuggiti essendosi sparsa la voce che sarebbero stati uccisi in massa. Il saccheggio è stato iniziato da misera gente di campagna che vi era entrata e poi da sbandati in fuga per lo più ubriachi che hanno sfondato porte di case e vetrine, uccidendo anche civili intesi a difendere i loro averi. Il colmo del caos è raggiunto a mezzogiorno del 28 quando alcune colonne armate italiane tentano di entrare in città da est e da ovest. La battaglia per le strade si risolve ancora una volta con la cattura in massa di prigionieri o con la fuga degli sconfitti. L’assalto alle cantine già fatto dai vinti, è rinnovato dai vincitori.
Gli invasori sapevano di dover conquistare quanto prima possibile i grandi ponti di Ragogna, Dignano e della Delizia sul Tagliamento. Il maltempo disturbava le stazioni radio delle divisioni gettate all’inseguimento, tuttavia anche se queste avessero ricevuto in tempo l’ordine, difficilmente avrebbero potuto raggiungere in fretta gli obiettivi dovendo scavalcare oltretutto la fiumana di profughi e di sbandati che ormai si era riversata sulle strade della pianura. La pioggia che cadeva insistentemente gonfiava di acque vorticose e giallastre i canali di solito asciutti e i torrenti che spesso avevano greti ghiaiosi anche della lunghezza di un mezzo chilometro. Erano tutti ostacoli insuperabili per i mezzi pesanti degli inseguitori e pericolosi per il guado. Così il maltempo favorì gli italiani che potevano fuggire sui numerosi ponti a loro disposizione.
Pioveva come se dovesse succedere per l’ultima volta. Alcuni reparti attaccanti riuscirono a passare con l’acqua fino al petto, lasciandosi indietro tutti i traini con i cavalli, tanto l’artiglieria non serviva più. Nel buio della notte, su sentieri incerti e molli, in mezzo alla nebbia o sotto lo scrosciare dell’acqua le fanterie austrotedesche tallonavano le retroguardie italiane. Così molti capisaldi a difesa caddero senza combattimenti.
Le colonne germaniche che mossero da Udine verso Codroipo si trovarono davanti ad una visione apocalittica della disfatta italiana. Per un lungo tratto di una trentina di chilometri su quella che era una delle più importanti e larghe strade friulane si vedeva abbandonato ogni genere di cose, armi leggere, bagagli, automezzi. Ai suoi lati giaceva un immenso parco di veicoli militari piccoli e grandi, un’infinità di cannoni dai piccoli calibri agli obici e alle bombarde fino agli spaventosi pezzi da 305. A molti avantreni erano ancora attaccati i cavalli, alcuni ancora in piedi in attesa, altri rovesciati per terra, di sicuro affamati e forse moribondi. La pioggia avvolgeva il tristissimo spettacolo. Una massa enorme di carri agricoli avanzava anche su due o tre file. Erano carichi di ogni genere di materiali militari e ingombravano talmente la carreggiata da rendere difficile e pericoloso il cammino dei pedoni. In mezzo a questa desolazione si vedevano avanzare lentamente e a volte bloccarsi per lungo tempo i carri dei contadini pieni di masserizie e di tristezza.
E intanto sulle strade laterali o in prossimità degli incroci continuavano gli scontri a fuoco. La cavalleria italiana che poteva muoversi in mezzo ai campi cercava di ostacolare le avanguardie attaccanti e il sorpasso della marea di fuggiaschi. Capitava anche in mezzo a quel rovinio che qualche squadra di attaccanti venisse fatta prigioniera dagli italiani e liberata poco tempo dopo.
I comandi italiani cercarono di arginare lo sbandamento mettendo posti di blocco con soldati armati e carabinieri all’uscita dai ponti. Terribili scene di esecuzioni immediate e di processi sommari per diserzione. Molti infelici, pensando di evitare d’essere rimandati indietro ai loro reparti, si strappavano le mostrine e i gradi peggiorando la situazione. Per gli ufficiali che erano soli senza i loro reparti non si usava pietà. Dal grado di maggiore in su erano fucilati immediatamente.
Al comando tedesco sorpreso dalla velocità di avanzata parve che per chiudere la partita con l’Italia bisognasse fare un balzo in avanti oltre i ponti sul Tagliamento lasciandosi indietro anche sacche consistenti di resistenza e superando la fiumana di profughi e sbandati. Una volta occupata stabilmente la sponda occidentale del fiume si sarebbe marciato a sud verso il mare per tagliare la ritirata all’intatta terza armata italiana del settore carsico. Ma a causa della diversità di vedute con l’armata austriaca del basso Isonzo che intendeva tirare dritto ad ovest nella sua zona di pertinenza, e che tuttavia avanzava lentamente, anche per il pauroso ritardo nella fornitura dei ponti mobili, le forze tedesche nella tarda giornata del 29 ottobre si divisero per l’assalto ai ponti intorno a Codroipo e per formare uno sbarramento su Latisana. Era un momento decisivo. Se superavano i ponti di Codroipo e Dignano e se il grosso delle forze italiane non aveva ancora superato Latisana, per l’esercito di Cadorna era la fine. Ma intanto le avanguardie delle due armate di invasione si toccavano creando ingorghi agli incroci stradali, mentre la resistenza di alcuni reparti e reggimenti italiani aumentava.
Il 30 ottobre i tedeschi combattono per eliminare l’ultima testa di ponte a nord ovest di Codroipo protetta da pezzi di artiglieria sull’altra sponda del Tagliamento. Quando riescono a impadronirsi di un abitato in prossimità del ponte della Delizia, piazzano le mitragliatrici dietro gli abbaini dei tetti e cominciano a bersagliare le interminabili colonne italiane che cercano di superare il fiume. In genere il Tagliamento è guadabile, ma in quei giorni la piena ha creato una serie di canali profondi sia pure non molto larghi. Una marea umana continua ad arrivare alle sponde del fiume sia dalla grande strada sia dal vicino e parallelo terrapieno della ferrovia. Il panico e il caos sono spaventosi. Si vuol solo passare. Racconta Giovanni Comisso:
‘Un rumore continuo di motori, di carri, di voci e di passi si sentiva avvicinandosi al ponte. La strada era ingombra. Un cannone con una ruota sfasciata ostruiva il passaggio. Molti, stanchi di attendere, abbandonavano gli autocarri e proseguivano a piedi. Passano alcune signore recando con sé poca roba, passa una fila di soldati ammanettati con delle paia di scarpe nuove da borghese al collo, qualche ufficiale superiore, solo, con una valigetta, prigionieri austriaci che se ne andavano liberi. Tutti venivano svelti per passare il ponte, si temeva di non riuscire e il terreno sul ponte era così consumato che si vedevano le travi. Il ponte vibrava al passaggio. Sotto, l’acqua tumultuava nella piena. Un aeroplano cadde sfracellandosi su un ghiaione. Una carretta avanti a noi, con una ruota sterzata ed immobilizzata, proseguiva tuttavia scavando nel fango. Il ponte vacillava. Non si credeva resistesse. Un cavallo stramazzato a terra più non si rialzava e veniva buttato nel fiume. Il terreno più non vibrava sotto i nostri piedi. Il ponte era finito.’
Pedoni, soldati a cavallo e automezzi che trainano anche cannoni si spingono sul ponte. Alcuni tedeschi ardimentosi con armi leggere si buttano anche loro tra i fuggiaschi e cercano di sorpassarli. Stanno per raggiungere l’estremità occidentale quando il ponte salta in aria con tutta la gente sopra. Pochi si salvano.
Qualche chilometro più a sud, al ponte di Madrisio stesse scene di panico. Racconta Puccini:
‘Ed ecco il ponte. Si affolla sugli argini fangosi una moltitudine delirante. Tutti vorrebbero passare prima degli altri per superare di corsa lo spazio breve che li separa dalla terra ferma che è al di là. La massicciata è già sconvolta dagli scavi del genio, che ha preparato le mine. Piangono le donne, strillano i bimbi, ma ogni senso di cavalleria e di umanità pare scomparso. Prevale l’istinto di conservazione. Invano gli ufficiali, con il frustino, con la rivoltella, con rami d’alberi divelti per via si sforzano di trattenere la folla torbida e brancolante. Lo strepito è assordante. Un gruppo di conducenti tenta di spingere i propri muli oltre i carriaggi di una batteria da campagna, ma gli artiglieri a colpi di frusta fanno indietreggiare la prepotente masnada. Il Tagliamento è giallo, limaccioso, gonfio d’acqua e di rifiuti. Corre verso la foce strappando alle ripe ciuffi d’erba e terra smottata. Lo spettacolo della chiara mattina è macabro. All’imbocco del ponte pare che si sia compiuto durante l’intera notte una selezione feroce. Tutto ciò che poteva ingombrare è stato abbandonato. Due cavalli, stretti ancora al collo con le briglie, agonizzano. I fanti che devono difendere fino all’ultimo le teste di ponte, dormono a poca distanza dai cavalli stramazzati, morenti.’
Alla sorpresa strategica di Caporetto per gli italiani era seguita per gli austrotedeschi la sorpresa di poter superare il Tagliamento. Questa, unita alla diversità di risorse materiali e tecniche di Austria e Germania, portò ad errori strategici che salvarono l’esercito italiano dalla distruzione. Un esercito che appariva prossimo al disfacimento in poche settimane sul Grappa e sul Piave si organizzò a resistere. Chi era scappato o si era sbandato, vedendo la marea di profughi, si sentì all’unisono col paese.
La partita sarebbe stata decisa dalle maggiori risorse materiali di uno dei due schieramenti imperialistici.