di Franco Martina
Non capita spesso di incontrare un libro che cercando tra manoscritti, miniature, rari testi pubblicati tra il ‘300 e il ‘700 le variazioni semantiche di una parola, riesca al tempo stesso a gettare uno sguardo su una mal nota storia del passato e a offrire una straordinaria opportunità per cogliere le urgenze del presente. Un libro di solido lavoro storico-filologico e filosofico-letterario, che si muove su una vastissima area geografica. Come scrive nel saggio introduttivo [a Andrea Bocchi, L’eterno demagogo, Aragno Editore, Torino 2011, p. 402] Adriano Prosperi, “Questo libro è dedicato non alla demagogia e alle sue astratte differenze dalla democrazia ma al mito, al modello, all’incubo del demagogo: e dunque affronta le figure e le immagini storiche e linguistiche che hanno incarnato la parte maledetta, il lato oscuro, negativo, della forma politica le cui sorti ci appassionano e ci fanno soffrire nel presente” ( p. XVII).
La ricerca di Bocchi è nata dall’incontro casuale con un manoscritto vaticano della fine del ‘300, contenente un poemetto in esametri, dal titolo De partibus sive super creazione partium Guelfe et Gebelline et ipsarum obiurgatione liber. L’autore era un grammatico marchigiano, Cristiano da Camerino che aveva avuto un breve incarico allo Studium di Perugia. Un testo sconosciuto, come il suo autore, che tuttavia doveva aver avuto una qualche circolazione se, nel 1405, Coluccio Salutati lo cita espressamente proprio in riferimento all’origine dei nomi delle fazioni fiorentine e sull’autore dà un giudizio severo dal punto di vista letterario, anche se gli riconosce “ una certa notevole inventiva”. Bocchi però è stato attratto da altro: in quel testo ricompare, dopo moltissimi secoli, la parola ‘demagogo’, anzi Demagoges.
Alcuni anni fa Luciano Canfora aveva dedicato alla demagogia un importante volumetto ( Demagogia, Palermo, Sellerio; 1993), con preziose indicazioni non solo sulla sua origine, nel tardo V secolo a.C. tra Aristofane (Cavalieri, 191) e Tucidide (VIII, 65), ma soprattutto sugli slittamenti semantici del termine derivanti dal modificarsi delle condizioni sociali della lotta politica, come pure dal giudizio che su queste modificazioni viene dato. Si passa così dall’originario significato, neutro, di “guida politica del popolo” a quello, ormai negativo, di chi fa politica servendosi di mezzi spregevoli; di chi cerca consenso solo servendosi di “gustosi manicaretti di parole”, come dice Aristofane . Tale ambiguità semantica è registrata da Aristotele nella Politica, dove fissa la valenza negativa del demagogo: