Come si comprende, oggetto del discorso per Agamben non era il fatto dell’attualità in sé considerato, ma le implicazioni politiche che esso comportava. Secondo il filosofo, la pandemia è stata l’occasione perché si consolidasse “la nuova forma di governamentalità” fondata sulla “sicurezza e l’emergenza”, che egli denuncia nell’Intervento al Senato del 7 ottobre 2021, inquadrandola nel più generale fenomeno della “Grande Trasformazione”. In che cosa questa consista, Agamben lo spiega bene nello scritto intitolato Il volto e la morte del 3 maggio 2021, dove dall’analisi dei nuovi comportamenti collettivi imposti durante la pandemia, la rinuncia all’esibizione del volto, al culto dei morti e al distanziamento sociale, egli deduce che “il progetto planetario che i governi cercano di imporre è, dunque, radicalmente impolitico. Esso si propone anzi di eliminare dall’esistenza umana ogni elemento genuinamente politico, per sostituirlo con una governamentalità fondata soltanto su un controllo algoritmico. Cancellazione del volto, rimozione dei morti e distanziamento sociale sono dispositivi essenziali di questa governamentalità.”
La filosofia qui è al servizio della politica e diventa forza critica tanto più radicale quanto più i poteri dominanti vorrebbero ridurla a semplice rappresentazione riflessiva dell’esistente. Lo si vede bene anche nell’intervento del 7 ottobre 2022 intitolato La guerra atomica e la fine dell’umanità, evidentemente sollecitato dal timore collettivo che la guerra convenzionale in Ucraina potesse degenerare in guerra atomica. Agamben non ha dubbi: “La guerra che temiamo è sempre in corso e non è mai finita, come la bomba una volta gettata a Hiroshima e Nagasaki non ha mai smesso di essere gettata”. Ciò vuol dire che da quel fatidico agosto del 1945 l’umanità intera non cessa di essere sotto scacco, a prescindere dalle singole emergenze belliche che hanno insanguinato e continuano a insanguinare il pianeta. Così il pensiero filosofico si sbarazza di ogni inutile piagnisteo e ci mette davanti alla realtà delle cose, a cui possiamo reagire solo con strumenti politici. Infatti, scrive Agamben, “non esistono fatalità senza alternative”, purché non si rinunci all’esercizio della politica. Contro le strategie dei poteri dominanti, fondate sull’ “alleanza sempre più stretta fra scienza, tecnologia e capitale” (Sulla fine del mondo del 18 novembre 2019), Agamben auspica la formazione di “qualcosa come una società nella società, una comunità degli amici e dei vicini dentro la società dell’inimicizia e della distanza. Le forme di questa nuova clandestinità, che dovrà rendersi quanto più è possibile autonoma dalle istituzioni, andranno di volta in volta meditate e sperimentate, ma solo esse potranno garantire l’umana sopravvivenza in un mondo che si è votato a una più o meno consapevole autodistruzione.” (Una comunità nella società del 17 settembre 2021).
La radicalità del pensiero filosofico approda dunque ad una visione del mondo e dei rapporti umani che rifonda su basi amicali e comunitarie la politica, o almeno hoc est in votis. Forse, pensa Agamben, solo quando questo processo sarà compiuto, la bomba di Hiroshima e Nagasaki cesserà di essere gettata.
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Il 7 novembre 2022 Giorgio Agamben pubblica Per i giovani, un breve scritto nel quale a me pare che abbia voluto mettere in guardia costoro, e non solo loro, dalla infinita tristezza della condizione in cui oggi essi vivono. Ma chi sono i giovani per Agamben?
“Certo giovinezza e vecchiaia convivono finché è vivo in ciascuno e ci portiamo dentro a ogni istante il giovane che siamo stati, così come il giovane presentiva lucidamente e perentoriamente la sua vecchiaia.”
I giovani, dunque, non costituiscono una classe d’età anagrafica in senso stretto, ma sono gli uomini, non importa l’età, che sentono ancora in sé la forza della giovinezza, al di là della misura del tempo, nella quale la società contemporanea vorrebbe irretirli e avvilirli.
“È proprio questa contemporaneità dei tempi e delle età che si è andata perdendo, così che oggi i giovani diventano vecchi anzitempo e i vecchi si credono giovani fuori tempo.”
Pertanto, questo scritto non è rivolto ai giovani, ma è Per i giovani, non complemento di termine, ma di vantaggio, secondo quanto ci dice il filosofo sin nell’esordio, “Non so se abbia senso credere di potersi rivolgere a dei “giovani””. Lo scritto non contiene infatti un’allocuzione, ma una lezione utile a tutti, in cui il testo letto e commentato ha il valore di exemplum e serve a spiegare l’assunto. Questo testo è intitolato Il Suicidio ed è stato scritto il 23 agosto 1914 da “una ragazza di ventidue anni, Carla Seligson, …. a Walter Benjamin pochi giorni dopo che sua sorella Rika si era suicidata insieme al fidanzato, il poeta diciannovenne Christoph Friedrich Heinle.”
Allo scoppio della Grande Guerra i due giovani si erano suicidati, con una decisione ferma che li porta a scegliere tra due condizioni, che altro non sono che le due età della vita: la gioventù e la morte. Essi scelgono la morte, dimostrando, scrive Agamben, un’ “intatta consapevolezza della serietà della propria condizione che vorrei ricordare a chi oggi crede di essere giovane.”
Quando non è possibile essere giovane, è meglio il suicidio, come accadde ai due fidanzati, la cui giovinezza era minacciata dallo scoppio della prima guerra mondiale. “Chi oggi crede di essere giovane”, al contrario, parla con frivolezza della possibilità di una guerra atomica: “Vorrei che i giovani riflettessero su questa decisione oggi che il discorso sulla guerra atomica è diventato qualcosa come una chiacchiera quotidiana.”
Mentre il mondo va a fuoco, i cosiddetti giovani, in realtà vecchi a prescindere dal loro tempo anagrafico, dormono e non si accorgono di quanto accade intorno a loro. Ma questi non sono giovani e neanche sono degni del suicidio come atto di scelta, sono solo dei morti viventi, degli zombi. Sono uomini privi di “serietà”.
Interpreto questo scritto come uno schiaffo non solo ai giovani in senso stretto, ma all’intera nostra società, che ha dimenticato cosa vuol dire essere giovane e non sa cosa vuol dire la morte.
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Quali siano i meccanismi che regolano oggi la nostra società, Giorgio Agamben lo spiega bene in un articolo del 28 novembre 2022, intitolato Il complice e il sovrano.
Egli individua “una nuova figura dell’uomo e del cittadino” che è venuta emergendo con chiarezza negli ultimi anni, in coincidenza con la pandemia, e che egli definisce “il complice”. Siamo in presenza di
“Una situazione, cioè, paradossale, in cui vi sono solo complici, ma il reo manca, una situazione in cui tutti … agiscono sempre come complici e mai come rei.”
L’attuale contratto sociale si configura, spiega Agamben, come “un patto di complicità senza il reo – e questo reo assente coincide con il sovrano il cui corpo è formato dalla stessa massa dei complici e non è perciò altro che l’incarnazione di questa generale complicità, di questo essere com-plici, cioè piegati insieme, di tutti i singoli individui.”
Naturalmente c’è sempre una maglia rotta nella rete, da cui sia possibile sfuggire al patto aberrante, e denunciarlo, ben sapendo che il prezzo da pagare sarà altissimo:
“Una società di complici è più oppressiva e soffocante di qualsiasi dittatura, perché chi non partecipa della complicità – il non-complice – è puramente e semplicemente escluso dal patto sociale, non ha più luogo nella città.”
Il non-complice è l’escluso, il reietto, lo scarto inutilizzabile. Il non-complice è il filosofo critico dello status quo, grazie al quale si rende possibile lo smascheramento del patto orribile che consente alla biopolitica di raggiungere il suo apice: “…l’uomo non trapassa più dialetticamente nel cittadino, ma stabilisce con questo una singolare relazione, nel senso che, con la natività del suo corpo, egli fornisce al cittadino la complicità di cui ha bisogno per costituirsi politicamente, e il cittadino da parte sua si dichiara complice della vita dell’uomo, di cui assume la cura.
Questa complicità, lo avrete capito, è la biopolitica, che ha oggi raggiunto la sua estrema – e speriamo ultima – configurazione.”
L’uomo complice del cittadino, il cittadino complice dell’uomo, entrambi irretiti in una relazione di complicità, che non lascia margini alla libertà. Il cittadino infatti non può nascere senza l’uomo, l’uomo non può vivere se non è cittadino. L’uomo in sé e per sé considerato, ovvero il non-complice, “non ha più luogo nella città”, ne è escluso e il suo destino è la morte.
Che cosa ci sia di male in tutto ciò, è facilmente comprensibile: dove l’umanità è piegata e subordinata ad altro da sé, essa è in ogni caso negata e non può che dar luogo ad una pericolosa deriva disumana. Cosiffatta è oggi, per Agamben, la nostra società.
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Nello scritto La verità e il nome di Dio del 5 dicembre 2022, Giorgio Agamben afferma che una volta sancita la morte di Dio, è venuto meno il nesso tra la parola e la verità, poiché non c’è più un Dio che garantisce la verità della parola e, dunque, non ha ragion d’essere “il giuramento pronunciato sul nome di Dio, che obbligava a rispondere della trasgressione del vincolo tra le nostre parole e le cose”. Da qui deriva che “Se la morte di Dio non può che implicare il venir meno di questo vincolo, ciò significa allora che nella nostra società il linguaggio è diventato costitutivamente menzogna. “
Così si spiega bene il cumulo di menzogne che i media ci propinano ogni giorno: “soltanto vacuità e impostura”, scrive Agamben.
La domanda, dunque, è la seguente:, esiste ancora la possibilità di una parola veritiera?
Agamben pensa che non tutto sia perduto e che l’uomo abbia ancora la possibilità di salvare la verità della parola: “Una verità che non si esaurisca nel garantire l’efficacia del logos, ma faccia in esso salva l’infanzia dell’uomo e custodisca ciò che in lui è ancora muto come il contenuto più intimo e vero delle sue parole. Possiamo ancora credere in un Dio infante, come quel Gesù bambino che, come ci è stato insegnato, i potenti volevano e vogliono a ogni costo uccidere.”
Mi piacerebbe indagare il senso profondo di queste parole, nelle quali il logos è associato all’infanzia dell’uomo, ovvero quell’età nella quale si è muti, secondo l’etimologia della parola latina infans, colui che non parla, l’infante appunto, che tuttavia nel suo mutismo custodisce una verità invisa al potente.
In un testo di Agamben presente in questa stessa rubrica, dal titolo A chi si rivolge la parola?, del 23 agosto 2022, lo scrittore ci dice che, a differenza del passato, oggi “poeti e filosofi parlano – se parlano – senza avere più in mente alcun possibile destinatario.”
“La parola deve ora fare i conti con un’assenza di destinatario non episodica, ma per così dire costitutiva. Essa è senza destinatario, cioè senza destino.”
La ragione di tutto questo è che il filosofo e il poeta, non solo, come nel passato, parlano ad un popolo assente, ma anche che oggi, a differenza del passato, essi hanno la certezza che il genere umano non è affatto eterno:
“Noi siamo la prima generazione nella modernità per la quale questa certezza è stata revocata in dubbio, per la quale anzi appare probabile che il genere umano – almeno quello che intendevamo con questo nome – potrebbe cessare di esistere.”
Dati questi presupposti, lo scrittore odierno è colui che scrive “in condizione di assoluta inappartenenza”:
“La parola diventa qui simile a una lettera che è stata respinta al mittente perché il destinatario è sconosciuto. E noi non possiamo respingerla, dobbiamo tenerla fra le mani, perché forse siamo noi stessi quel destinatario sconosciuto.”
La parola senza destinatario ovvero con un destinatario che si identifica con il mittente, una parola che in realtà è “un’esigenza”, al “di là di ogni necessità e di ogni possibilità”, azzera il logos adulto e lo restituisce alla sua fase aurorale, così permettendogli di riacquistare la sua verità. Citando César Vallejo, Agamben scrive:
“Il vero destinatario della poesia è colui che non è in grado di leggerla. Ma ciò significa anche che il libro, che è destinato a colui che non può leggerlo – l’analfabeta – è stato scritto con una mano che, in un certo senso, non sa scrivere, con una mano analfabeta. La poesia restituisce ogni scrittura all’illeggibile da cui proviene e verso cui si mantiene in viaggio.”
La poesia ha un destinatario poetico analfabeta e presuppone un poeta analfabeta. Pertanto, alla domanda “A chi si rivolge la poesia” è giusto che si dia la seguente risposta: “la poesia deve restare illeggibile, che non vi è propriamente un lettore della poesia.”
Come il Dio-bambino è muto così la poesia è illeggibile: due paradossi assimilabili l’uno all’altro. Infatti, il Dio infante citato in La verità e il nome di Dio, quel bambino che i potenti vorrebbero uccidere perché temono la sua potenza, sebbene, in quanto bambino, non conosca le lettere dell’alfabeto, è figura del poeta analfabeta e illeggibile, un essere anche lui imbelle e muto, eppure molto pericoloso, che il potere tiene ai margini riducendolo al silenzio, quando non tenti di ucciderlo. Il suo compito allora sarà quello di preservarsi nel suo analfabetismo e nella sua illeggibilità, sottraendosi alla violenza del potere, il che equivale a preservare la verità della parola avvenire.