Questo tema, su cui per molti anni era caduta una sorta di damnatio memoriae, è stato ripreso e approfondito dalla storiografia italiana negli ultimi vent’anni, grazie agli impulsi impressi dalla comparazione tra problematiche correlate ai fenomeni migratori contemporanei (clandestinità, schiavismo infantile, lavoro nero) e dell’arricchimento della storia del movimento operaio con la storia delle donne e delle fasce sociali più deboli.
Tra Otto e Novecento la figura del lavoratore migrante minorenne è oggetto di una costruzione ideologica imperniata sull’intreccio di due paradigmi interpretativi: uno di tipo patologico-sociale e un altro medico-igienista. Gli osservatori che utilizzano il primo paradigma tendono a rappresentare i piccoli emigrati come martiri, schiavi, vittime degli adulti. Nel secondo caso l’attenzione degli studiosi e dei legislatori è invece rivolta soprattutto alle ripercussioni che il lavoro eccessivo e insalubre ha sulle condizioni di salute dei cittadini italiani emigranti in giovanissima età. La preoccupazione è che questi fattori possano contribuire a trasformare i piccoli e le piccole in potenziali ladri, prostitute e sovversivi. Inizialmente l’attenzione delle autorità si concentrò sulla questione dello sfruttamento del lavoro migrante minorile nell’ambito delle professioni ambulanti; successivamente, tra Otto e Novecento, i governi italiani cercarono di reprimere l’emigrazione – spesso clandestina – di ragazzi verso le fabbriche europee. Nel medesimo periodo si cercò anche di scoraggiare l’emigrazione di minori verso gli USA, sia perché negli States si erano intensificati i respingimenti di migranti non in grado di mantenersi autonomamente, sia per timore di un allargarsi del fenomeno di renitenza alla leva e, infine, per prevenire spese di rimpatrio di cui avrebbe dovuto farsi carico lo Stato italiano. Preoccupazione di fondo delle classi dirigenti dell’Italia liberale era quella di smentire la massiccia ondata di emigrazione come un portato della nascita dello Stato e del mercato a dimensione unitaria.
L’arco cronologico qui preso in considerazione può essere suddiviso in quattro fasi, contrassegnate da alcune specificità, come pure da diverse analogie.
Le specificità riguardano in particolare la scelta delle categorie e delle fasce d’età da tutelare. Analogie ci furono nel senso che i legislatori operanti nel corso dell’Ottocento e nei primi del Novecento si trovarono a discutere di problematiche rimaste immutate nel corso del tempo: il coinvolgimento – consapevole o meno – delle reti familiari nella cessione illegale di fanciulli a terzi; il proliferare di forme contrattuali di affitto di minorenni portati a lavorare all’estero; la presenza di individui o network criminali dediti peculiarmente al traffico di bambini; la difficoltà di stabilire se far espatriare un minore con un congiunto, un parente o una persona di fiducia costituisse o meno un deterrente per scoraggiare le forme di emigrazione irregolare.
Nella prima fase (dall’Unità al 1880) l’economia italiana poggiava essenzialmente sul settore agricolo, mentre le correnti migratorie, non ancora statisticamente rilevanti, erano costituite sostanzialmente da girovaghi. Durante questo periodo gli sforzi dei governi furono diretti principalmente ad eliminare gli inconvenienti legati all’espatrio di giovanissimi musicisti di strada e di altri nuclei di fanciulli girovaghi, i quali con le loro attività – spesso non distinguibili dall’accattonaggio – contribuivano a screditare il buon nome dell’Italia all’estero. Il risultato più importante all’azione di contrasto intrapresa dalle autorità politiche fu l’approvazione della legge 21 dicembre 1873, n. 1733 sul divieto di impiego dei soggetti con meno di 18 anni in svariate professioni ambulanti.
La seconda fase comprende il decennio tra il 1895 e il 1905, in cui l’Italia cominciava a incamminarsi sulla strada dell’industrializzazione, ma il permanere di gravi squilibri territoriali ed economico-sociali creò le condizioni per un’emigrazione di massa basata non più sulla forte rappresentanza di attività artigianali, commerciali e musicali di tipo itinerante, bensì sulla ricerca di occupazione in vari rami produttivi delle economie europee ed americane. Anche fra i minorenni diretti all’estero aumentò considerevolmente la quota dei “migranti di lavoro”, i quali andarono ad alimentare un mercato assai fiorente gestito da una fitta rete di appaltatori e sub-appaltatori. L’estendersi di tale “industria”, unita alla necessità di non depotenziare l’economia nazionale inviando all’estero cospicui contingenti giovanili, spinsero il Parlamento italiano a ridefinire le politiche di tutela del lavoro migrante minorile. Attraverso la legge sull’emigrazione 23/1901, approvata agli inizi dell’età giolittiana, i dispositivi di protezione, fino ad allora riguardanti solo i girovaghi, vennero estesi ai fanciulli di ambo i sessi, condotti a lavorare in industrie straniere malsane, e alle fanciulle fatte espatriare a scopo di prostituzione. Ma in età giolittiana il coinvolgimento di un elevato numero di minori nelle migrazioni fu percepito prioritariamente come un ostacolo allo sviluppo economico del Paese, in quanto comportava un’importante sottrazione di forza-lavoro altrimenti destinata ai settori industriali.
La terza fase comprende il decennio 1906-1915, contrassegnato a livello internazionale dall’alternarsi di cicli economici espansivi e recessivi e, in Italia, dall’incremento delle partenze per l’estero. Tale periodo fu contraddistinto dall’introduzione di nuove forme di controllo dell’emigrazione minorile tese: a coinvolgere i consolati nella stesura dei contratti di arruolamento riguardanti soggetti in età minore; a evitare che sotto una certa età i fanciulli emigrassero da soli o in compagnia di persone non affidabili; a privilegiare l’adozione di convenzioni bilaterali ad hoc per la protezione dei giovani migranti. Nonostante tali misure, gli organi competenti non cessarono di segnalare le ripetute violazioni della legislazione vigente. Segno che, come in passato, le famiglie proletarie continuavano a rispondere alla precarietà con svariate strategie: la pluriattività, la mobilitazione lavorativa e la mobilità di tutti i propri membri.
I flussi migratori minorili subirono mutamenti qualitativi e quantitativi nel quarto periodo, compreso tra la prima guerra mondiale e le due guerre, in seguito alla ristrutturazione dei mercati del lavoro europei e americani, al varo di legislazioni restrittive sull’immigrazione straniera da parte degli USA (e di altri Paesi) e da provvedimenti più severi varati dal regime fascista in Italia. Quest’ultimo inserì l’inasprimento delle sanzioni contro l’emigrazione irregolare minorile nell’ambito di un progetto più vasto teso a proteggere l’integrità della stirpe italiana dalla concorrenza esercitata da altri popoli.
Il coinvolgimento di fanciulli e fanciulle nelle migrazioni di mestiere e di lavoro otto-novecentesche appare peraltro regolata dai tradizionali modelli lavorativi di divisione sessuale dei ruoli lavorativi. Su tale base i bambini e i ragazzi vengono impiegati come suonatori ambulanti e piccoli schiavi, nell’industria vetraria transalpina, come figurinai (venditori di statuette di gesso), sono inviati nelle fornaci dell’Europa centrale, occupati come spazzacamini in Francia e in Svizzera e nei lavori di strilloni, lustrascarpe, fattorini, lavoratori di fabbrica o a domicilio nelle aree urbane del Nord e del Sud America. A loro volta, le fanciulle sono indirizzate verso le aree tessili francesi, svizzere, austriache e tedesche quali lavoranti a domicilio nel settore del vestiario, oppure come tabacchine e serve di campagna.
Diamo un rapido sguardo alle fasce d’età e alle dinamiche familiari. Nel periodo 1876-1920 la percentuale dei minori sotto i 15 anni è compresa tra il 9 e il 15% delle partenze complessive dall’Italia: le Regioni maggiormente interessate sono il Veneto, il Friuli e il Trentino, da cui partono nuclei familiari completi per il Brasile e altri Paesi sud-americani. Dato la struttura prevalentemente agraria dei territori che gli emigranti italiani furono chiamati a popolare, nonché il carattere definitivo o di lunga durata di queste migrazioni, partirono per quelle mete migliaia di famiglie composte da un numero rilevante di minori, dai neonati agli adolescenti, segno questo di una diminuizione della mortalità infantile, richiesto anche dalle politiche di popolamento perseguite dei Paesi ospitanti. Il ciclo migratorio e il ciclo di vita familiare apparivano strettamente intrecciati fra loro: l’emigrazione dei membri della famiglia si effettua per turni distributi lungo una serie di anni, approfittando delle diverse età del padre e dei figli. Emigra per primo il padre che, man mano che sente calare le energie, chiama i figli più adulti per ritornare al paese natìo. Quando maturano i figli minori, questi prendono il posto dei più grandi. Così in patria si conserva l’azienda domestica e fuori vengono messe a frutto le forze più disponibili della famiglia.
Rispetto all’emigrazione transoceanica, che presenta più di frequente un carattere definitvo, l’emigrazione diretta in Europa attira meno nuclei familiari completi, anche a causa del tipo di lavoro richiesto dall’Europa industrializzata (lavori stradali e industriali pesanti) poco adatti alle donne e ai fanciulli. Si possono così individuare due modelli migratori italiani: il primo comprende quasi tutto il Mezzogiorno, in parte le Marche e il Lazio, ed è caratterizzato da una maggiore attitudine per l’emigrazione transoceanica e da tassi d’espatrio e minorili tendenzialmente più elevati rispetto alle corrispondenti medie nazionali. Il secondo, riguardante le regioni centro-settentrionali e la Sardegna, presenta una maggiore propensione per gli spostamenti continentali e una proporzione di emigranti minorenni inferiori al dato complessivo italiano.
Il ragazzino che, in uno dei racconti del Cuore, rigetta orgogliosamente (lui povero e solo) ad alcuni viaggiatori stranieri le monetine poco prima ricevute in elemosina, perché ascolta questi diffamare gli italiani, rappresenta efficacemente la contraddizione tra l’immagine risorgimentale dell’Italia e le condizioni reali del Paese. Se in De Amicis tale atteggiamento nobilita anche i derelitti, l’orgoglio nazionale delle istituzioni (ininterrotto nella produzione pubblicistica e legislativa da Cavour a Mussolini) tende ipocritamente ad occultare il deficit di tutela dell’infanzia, tollerato all’interno dei confini nazionali, ma imbarazzante davanti all’opinione pubblica internazionale. Le Nazioni ospitanti non tarderanno, a loro volta, a elaborare l’identikit dell’italiano medio come disonesto, sporco, scarsamente affidabile e potenziale delinquente, capace anche di trafficare i propri figli. Anche Giovanni Pascoli recepirà il contrasto tra le aspirazioni italiane ad una politica di grande potenza e lo sfruttamento dei connazionali emigrati, in un famoso discorso, tenuto all’indomani della conquista della Libia da parte dell’Italia, nel 1911. Per il poeta la conciliazione avviene proprio grazie alla politica di espansione coloniale, in grado di proteggere il lavoro italiano nelle proprie terre d’Oltremare, prolungamento di un Paese che non riesce a garantirlo nei propri spazi geografici.
[“Controcanto”, IX, 4, dicembre 2013, pp. 13-15.]