Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia 7. Il 25 luglio 1943

Decimata la servitù cittadina di tipo colonico ed agrario dalle leve di guerra, la borghesia galatinese si è trasferita in quell’estate nelle ville abbellite di viali ombrosi, dove almeno può utilizzare i pochi guardiani di campagna che sono rimasti. Il ceto medio, invece, è costretto a limitare l’uso della bicicletta per mancanza di pezzi di ricambio, e resta in città dove nelle case ha murato collane, vezzi e gioielli oltre che “munizioni da bocca” (grano, farina, formaggio, vino, olio e legumi) per metterli al riparo da eventuali saccheggi bellici (la guerra intanto sale dalla Sicilia), oppure da requisizioni eseguite a nome dello Stato da funzionari-scagnozzi.

All’uscita dalla città sulle strade per Noha, Sogliano, Galatone, Copertino, Lecce, Soleto e Corigliano e sparse qua e là all’incrocio fra vie comunali e poderali, sorgono delle casematte di cui qualche esemplare si può vedere ancora ai nostri giorni. Non hanno la struttura di un mezzo di difesa e non sono idonee a far da ricovero ad un presidio, e ben a ragione la gente ha brontolato aspre chiose al momento della loro costruzione. Siamo già agli incunaboli della pratica dello spreco.

Per le strade profughi e sfollati diventano sempre più numerosi, tanto che si è dovuto organizzare una piccola città-Shangai al convento dei Cappuccini nei pressi del Cimitero. Ivi si dà un tetto provvisorio a chi ne ha bisogno, ma si favorisce inconsapevolmente una vergognosa promiscuità di sesso e di lingue. Non c’è famiglia in cui la legge bellica non abbia lasciato il segno. Laddove il nucleo famigliare è rimasto inalterato, esso viene violato dall’ospitalità data a qualche ufficiale tedesco del presidio di città, allogato nella casa paterna Bardoscia in via San Francesco, già via Zimara. Non poche furono le azioni belliche, anche con gravi perdite umane, che toccarono il territorio di Galatina, per la posizione strategica dell’aeroporto militare “Fortunato Cesari”. La popolazione è vivamente allarmata. Il malcontento cresce. Durante l’allarme aereo incominciano a delinearsi i primi atteggiamenti di ribellione contro i capistrada con la fascia al braccio, ultimi esemplari di una autorità in isfacelo.

In questo clima giunge sulle onde della radio a Galatina nella tarda sera di Domenica 25 luglio 1943 la notizia del colpo di Stato che ha deposto Mussolini ed ha abbattuto la tirannia fascista. La notizia si diffonde in un baleno anche nel contado, pur se lì le antenne radio sono scarse per carenza di impianti elettrici. Tutti si precipitano di primo mattino in città il Lunedì. In piazza San Pietro, in piazza Dante Alighieri, lungo via Vittorio Emanuele e via Umberto I e nei pubblici locali la gente a coppie, a gruppi dà vita ad un movimento, ad un formicolio vivo, inatteso, ma composto e civile, non un improperio, non un’invettiva.

Tutti i cittadini hanno ritrovato, in una vita mortificata dalla menzogna, l’immagine della verità e si sono sentiti, dopo tanti anni, riconciliati con le virtù autentiche della vita e della comunità sociale; è nata in loro una gioia così intensa e così vera, come raramente appare nei rapporti degli uomini, e il poterla manifestare alla luce fa emergere una profonda simpatia tra l’anime e l’universo. Ma proprio perché l’avvenimento è straordinario, non sorprende che qualcuno per un attimo dubiti che quanto è accaduto possa essere vero, e qualche altro si ripieghi nel suo animo e si lasci andare all’onda dei ricordi, e via via indietro negli anni il pensiero ritrova la radice di quella gioia nelle prime forme di Resistenza galatinese al fascismo.

1922-1926. Nell’attuale piazza Alighieri, in un terreno cinto da mura allo stato grezzo, detto delle concerie dei Minco, dove c’è stata la ditta Fisso e Surdo, subentrata alla tipografia Vergine, è situata la tipografia Marra e Lanzi. In quegli anni, all’interno dello stabilimento, in una stanza sotterranea raggiungibile da una apertura terragna e tanto angusta da contenere appena una macchina tipografica a pedale, la cosiddetta pedalina, si stampano periodicamente foglietti e bollettini di opposizione al fascismo, conformi a manoscritti che vengono inviati per mezzo di staffette dal Centro di organizzazione del Nord. I manoscritti vengono ritirati da un ragazzo, il galatinese signor Giuseppe Giausa, che non ne domanda la provenienza. Il ragazzo, quindi, li passa in tipografia da dove poi ritira i fogli stampati e all’atto della consegna nessuno gli chiede da chi li abbia ricevuti. Il materiale stampato ritorna, così, al Nord. In questa attività clandestina sono impegnati gli intellettuali avvocato Gaetano Cesari, il dottor Carmine D’Amico e l’insegnante elementare Fedele Liguori, e gli operai Pompeo Toma, Antonio Lanzi ed Eugenio Marra oltre al su nominato Giausa. Nel 1926 intanto, essendo divenuta più occhiuta la vigilanza, si interrompe ogni attività e vengono distrutti i caratteri tipografici. Qualcuno di quei bollettini, nascosto durante il fascismo in un camino in disuso in casa del Giausa, per mala sorte si è perduto. Oggi sarebbe un autentico documento storico.

Galatina, però, ha conosciuto altre forme di Resistenza al fascismo.

Si può ricordare l’iniziativa spontanea di suonare e cantare Bandiera rossa durante il carnevale a dispetto del divieto dell’autorità costituita, nei festini popolari che si svolgono al Concertu in via Scalfo e le sarabande di giovani proletari guidati da Pietro Spagna lungo via Lillo negli anni 1923-1924 al canto dell’Internazionale. Manca in verità una Resistenza di tipo borghese, se si eccettui quella di orientamento massonico del dottor Carlo Vallone, e che non si riduca alla circospetta conservazione in casa Zamboi degli opuscoli contenenti i discorsi di opposizione al fascismo di Luigi Sturzo.

Abbiamo perciò a Galatina in un primo momento la Resistenza organizzata dalle Leghe. Ricordiamo la Lega dei muratori allogata sin dal 1910 in via Cavour, di cui è capolega l’operaio De Vita, gestore di una cooperativa di generi alimentari annessa alla Lega medesima. Lungo gli anni Venti questa Lega e quella dei contadini si fondono nella Camera del Lavoro e si trasferiscono nel cosiddetto camerone, fino agli anni Sessanta  laboratorio di falegnameria in via Del Balzo. Qui viene gestito un Teatrino ad opera degli stessi operai, al fine di svago per sé e per le proprie famiglie, oltre che per autofinanziamento. Il 23 dicembre 1922 la violenza fascista esplode anche a Galatina e la Camera del Lavoro viene occupata. Di tutta la suppellettile del locale (un busto di De Amicis, una cassa da morto, la lapide dei morti in guerra, seggiole, tavoli ed il materiale scenico) viene fatto un rogo in piazza San Pietro. Vi sono due bandiere. I fascisti le cercano invano. Quella della Lega dei contadini viene nascosta in una cassa di tabacco. L’altra della Lega dei muratori, una popolana, la mamma del muratore Pantaleo Calcagnì, se l’avvolge al petto con uno di quei gesti con i quali talora il popolo dà forma e senso alla vita (si pensi allo zoccolo di Genny Marsili scagliato contro le SS tedesche e, più indietro nel tempo al Tiremm innanz di Antonio Sciesa), e quando il pericolo è passato, l’affida ai compagni che la sotterrano nel pavimento di casa.

E’ questo il momento in cui anche a Galatina è di moda l’olio di ricino. E qualcuno ricorda ancora un anonimo popolano che, dopo avere senza batter ciglio bevuto il medicinale nella farmacia Tundo oggi Sabato, circondato da teppisti sghignazzanti, con atto spavaldo ma fiero, mette in bocca, a dispetto dei presenti, l’indice della mano destra con cui ha raschiato l’orlo del bicchiere per rasciugare l’ultima goccia di olio.

Intanto il fascismo consolida il suo potere e nascono altre forme di Resistenza, che richiedono tempra di uomini a vivere una vita librata in un mondo dove non ci sono padroni. A Galatina questi uomini non sono mancati.

Alfredo Stomeo, più volte sollecitato, rifiuta la tessera del fascio e viene minacciato di espulsione dalla Società operaia, ma egli resiste per tutto il ventennio, anche quando nel corso della guerra gli vengono negati i bollini per la fornitura del cotone, indispensabile alla sua attività di sarto, senza la quale il pane quotidiano diventa davvero una metafora.

Torquato Marchese, un bottaio, più volte ammonito, mentre accomoda le botti, dice una parola o compie un atto che possono compromettere se stesso e gli astanti ed egli, incurante delle esortazioni alla prudenza, fa come gli asini, che curvano la schiena ma seguitano a fare a modo loro.

Ma chi si è conquistato da sé il diritto ad essere considerato l’alfiere della Resistenza galatinese, nonché salentina, al fascismo, è l’avvocato Carlo Mauro.

Altri ha degnamente parlato dell’uomo, della sua milizia comunista, della condanna al confino per opera del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, e delle sue peregrinazioni per le carceri di Lecce, di Poggioreale a Napoli, di Crotone, dell’Ucciardone a Palermo, ad Ustica, a Lampedusa ed a Ponza. Noi invece vogliamo dare ai nostri lettori la rappresentazione forse sconosciuta di come un regime di tirannia riduca l’uomo che non rinneghi le virtù del coraggio, della giustizia e della libertà.

1936. E’ forse l’anno in cui il fascismo ha raggiunto il vertice del suo potere. Carlo Mauro vive a Galatina, isolato da tutti, forse anche dagli stessi parenti, in balia di se stesso. L’esercizio della professione è quasi vanificato. E’ il momento in cui all’uomo la vita chiede di esperimentare il sentimento della solidarietà. Ed ecco alcuni biglietti scritti a mano su carta velina o carta leggera da sigarette, in stile disadorno, a matita copiativa color viola o ad inchiostro nero e talora verde. Ne abbiamo preso visione e ci è parso che essi abbiano validità di testimonianza storica per il tempo cui si riferiscono, più che per la persona che passa. Abbiamo così forzato il fine riserbo del destinatario che con amore li ha custoditi, il signor Marino Tundo. Li pubblichiamo come eloquente documento del contributo dato alla resistenza contro il tiranno e come monito a chi osa rimettere in discussione la volontà degli Italiani di essere uomini liberi.

Nella scheletricità delle parole nude e ridotte all’essenziale, questi biglietti senza indicazione di data dicono, a chi li legge con intelletto d’amore, insicurezza personale, impressioni e prospettive di disagi, di patimenti e di privazioni, in una parola il dominio della fame, ma anche un indomita volontà di lotta, di sacrificio e di azione.

1) Caro Marino, mandami un poco di pane. Tanti cordiali saluti. Aff.mo Carlo Mauro.

2) Carissimo Marino,

Mandami a dire se puoi anticiparmi 1/2 litro di olio.

Ti resterò tanto tanto obbligato.

Saluti cordiali

Aff.mo Carlo Mauro

3) Caro Marino,

mandami un poco di pane.

Tanti cordiali saluti

Aff.mo Carlo Mauro

4) Caro Marino,

obbligatissimo verso di te, se

vorrai mandarmi due pagnotte

di pane, avendo dei compagni fuo-

restieri.

Aff.mo tuo Carlo Mauro

5) Carissimo Marino,

Ti prego – se puoi – mandar –

mi un poco di riso.

Grazie anticipate

Aff.mo Carlo Mauro

6) Carissimo Marino,

Ti prego caldamente per un chilogrammo almeno di riso e

per un poco di zucchero quanto mi puoi mandare anche  mezzo

Kg.

Grazie di tutto e ricordati che

ti voglio sempre bene, ora più

che mai.

Mille cordialità

Aff.mo Carlo Mauro

7) Caro Marino,

mandami un poco di olio, quello

che credi.

Saluti affettuosi,

tuo Carlo Mauro

E sono proprio le ristrettezze che in essi si leggono che danno luce all’uomo che li ha scritti .

L’avvocato Carlo Mauro ha partecipato dal 15 al 21 gennaio 1921 a Livorno al XVII Congresso del Partito socialista italiano dove si scontrano le tre correnti: comunista, massimalista e riformista. Abbandonato il teatro Goldoni, sede del Congresso, egli si è unito agli altri compagni al Teatro San Marco, dove viene proclamata la costituzione del Partito comunista, sezione italiana dell’Internazionale comunista. Inizia qui la sua milizia nel partito fino alla nomina a consultore nazionale ed alla partecipazione al Congresso dei partiti antifascisti presieduto da B. Croce al teatro Piccinni di Bari. Al momento del decesso il  12 giugno 1946 Carlo Mauro, quando già, in seguito a referendum, era stata proclamata la Repubblica e sconfitta la Monarchia, dichiarò che quell’evento, che era stato l’aspirazione di tutta la sua vita, lo ripagava di tutti i travagli che aveva patito.

Il suo trasporto funebre, con rito umile e dimesso, e plebiscitaria partecipazione di popolo, venuto anche dalla provincia, resta nel ricordo di Galatina come l’ultima, ma forse anche la sola cerimonia funebre laica e civile, per volontà dell’estinto.

Questi è l’uomo intorno a cui lungo gli anni Trenta a Galatina si è venuto organizzando uno schieramento proletario clandestino, con qualche frangia medio borghese, dal quale è emerso l’autentico antifascismo in cui riposa l’essenza civile della nostra città.

Vivono ancora molti, ad esempio, che nel corso dell’ultima guerra hanno ascoltato radio Londra nel retrobottega del negozio Nuzzo in via Umberto I o, dalle 21 alle 24, nel sottoscala, ovattato di coperte per attutire il rumore, di casa Giannini in via Pascoli. Ci si è riuniti in orari diversi e per vie diverse per sottrarsi all’eventuale delatore, inosservato all’angolo della strada. Ed anche questo è stato un modo di resistere al tiranno.

Questi pensieri, o pensieri simili a questi hanno sovrastato le grida di viva e di abbasso il 25 luglio 1943 quando l’Italia è stata restituita agli Italiani e Galatina alla sua tradizione di libertà, ed a noi è sembrato opportuno ridestarli prima nell’animo nostro e poi in quello della nostra gente.

[Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia, Mario Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 45-49.]

Questa voce è stata pubblicata in Memorie, Memorie di Galatina di Giuseppe Virgilio, Storia e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *