di Giuseppe Virgilio
Il sole spacca le pietre quel lunedì e rende l’afa più opprimente che mai. Le lucertoline spuntano spaurite di dietro il margine dei sassi; chi stia al centro di uno degli uliveti che circondano la nostra città nell’ora in cui nessuna voce umana turba il loro concerto, riesce a distinguere da ulivo ad ulivo la differenza di timbri e di toni delle cicale. Galatina è immersa in un silenzio e in un languore che, propiziati dall’assolata stagione estiva, fanno pensare ad una immobilità morale che è soltanto apparente.
Proviamo allora a rievocare nell’animo, prima che nella nostra memoria, la città di quel tempo.
25 luglio 1943. Galatina e il suo territorio non hanno ancora incominciato ad espellere gli artigiani ed i piccoli commercianti dal centro storico, non hanno strappato i contadini alla terra trasformandoli in manovali od emigranti, ma sono ancora la città dei padri, le abitazioni si mescolano con le opere d’arte, con i monumenti, con le piazze, i bar e gli spazi comuni per le feste in uno scambio e contatto quotidiani che arricchiscono l’umanità della gente. In un locale un tempo adibito, tra l’altro, alla vendita del ghiaccio, La frigorifera, all’angolo di via Cavoti da piazza San Pietro, si ritrovano gli intellettuali della città. A pochi passi di lì, in via Orazio Congedo, una frasca invita all’osteria del buon vino. Eppure in questa sonnolenza esteriore, a chi ben guardi, non sfugge che la disgregazione sociale di Galatina è già cominciata.