Quella d’Etiopia viene presentata come guerra proletaria delle nazioni povere contro quelle ricche e borghesi, una guerra per “la giustizia sociale tra le nazioni”. Queste argomentazioni trovano una certa eco tra le masse cui non arride una buona prospettiva avvenire, perché vivono nella miseria, ed in particolare tra i giovani. Si rinviene, difatti, tra costoro in una certa misura il fenomeno dell’arruolamento in direzione dell’Etiopia. A Galatina esso si verifica in particolare tra il garzonato dei contadini e dei barbieri e tra gli autisti. Possiamo considerarlo come un fenomeno di volontariato? La tradizione consente di affermare che il volontariato è un aspetto tipico della storia italiana. Si pensi ai volontari guidati dal Garibaldi in Sicilia allorché essi determinarono la caduta del Regno delle Due Sicilie e Cavour poté riunire il Sud e il Nord e proclamare Vittorio Emanuele II re d’Italia. Si pensi ancora ai volontari della prima guerra mondiale protagonisti della passione nazionale nel maggio del 1915, nel novembre e dicembre del 1917 dopo Caporetto e nel giugno del 1918.
Ma nella guerra d’Etiopia così come nella seconda guerra mondiale il fenomeno del volontariato non si ripete. Vuol dire allora che le cause che hanno indotto militari e civili ad arruolarsi in Etiopia hanno una diversa spiegazione.
Quella etiopica è stata una guerra fascista, capitalistico-statale e coloniale. E’ stata dichiarata a conclusione di tredici anni di una politica liberticida e di asservimento delle masse, in un’epoca in cui quelle conquiste non sono più accettate dalla comune coscienza europea. Il fascismo, dittatura di classe ed insieme regime reazionario di massa, ha organizzato mediante il corporativismo il predominio degli strati più alti dell’industria e delle banche. In nessun altro paese lo Stato è intervenuto per far diminuire i salari, come è accaduto in Italia in epoca fascista. L’imperialismo italiano è stato assai debole per mancanza di materie prime, ma assai forte dal punto di vista dell’organizzazione e della struttura.
Il fascismo è stato costretto alla guerra etiopica, contro un popolo indipendente da quattordici secoli, perché non ha risolto la crisi politica da cui è stato portato al potere. La propaganda di guerra, basata sui diritti delle nazioni povere, ha mascherato un’altra miseria, ma reale ed ingiusta, quella delle masse popolari d’Italia. Di qui allora il ricorso alla guerra. Fino a tutto il secondo conflitto mondiale l’Italia è stata un paese agricolo specialmente nel Mezzogiorno, ma quando il fascismo giunge al potere, la concentrazione industriale gode di una politica salariale di privilegio. Difatti Mussolini il 30 giugno 1926 accorda ai datori di lavoro la facoltà di aumentare la giornata lavorativa da 8 a 9 ore senza aumento di salario nelle industrie tessili che devono sostenere la concorrenza straniera. Per contro il 13 ottobre 1927 il duce ordina una riduzione non minore del 10% né maggiore del 20% dei salari in corso, ed in un discorso al Senato del 18 dicembre annuncia che i salari degli operai agricoli devono essere ridotti fino al 25% “ed anche di più… a condizione che l’operaio non abbia meno di otto lire di paga al giorno”.
Per la Puglia d’altra parte il “Lavoro agricolo fascista” dell’8 marzo 1931 pubblica che i salari per la categoria dei braccianti vanno da 7,50 a 9 lire al giorno.
Intanto ha inizio una politica a favore degli agrari, ma contro i piccoli e medi coltivatori, ed essa si incentra nella battaglia del grano.
Se escludiamo che l’emigrazione in Etiopia sia stato un fenomeno di volontariato, si converrà che la battaglia del grano, in aggiunta alle deliberazioni del regime precedentemente chiamate in causa, abbia accresciuto l’impoverimento delle già gravi condizioni di vita del proletariato rurale e dei piccoli e medi coltivatori. Il regime adduce il pretesto di dover produrre 65 milioni di quintali di grano per soddisfare il fabbisogno nazionale. La media di produzione è di 14 quintali per ettaro. Ma questa media è ricavata da cifre molto diverse: ad esempio, la Sardegna è al di sotto dei 10 quintali, mentre la Lombardia è al di sopra dei 30. E’ chiaro che 30 quintali per ettaro vengono raccolti dal grande proprietario che dispone delle terre migliori e meglio coltivate; è chiaro anche che il costo di 30 quintali per ettaro è molto più basso di quello che si ha per il grano che dà meno di 10 quintali per ettaro. Ciò significa che il dazio, introdotto dal fascismo per tenere alto il prezzo del grano, va a favore di coloro che producono di più; a costoro, inoltre, vanno le facilitazioni per l’impiego dei concimi e i premi per i coltivatori. Questa politica a Galatina favorisce non più di dieci famiglie, mentre i piccoli e medi proprietari che producono meno di 10 quintali sono svantaggiati nella produzione perché, oltre al gravame del dazio, non possono contare sulle facilitazioni per l’impiego dei concimi e sui premi per i coltivatori. In questa realtà il fascismo risponde con la bonifica integrale per quanto riguarda i braccianti, i piccoli affittuari, i mezzadri ed i coloni. La bonifica integrale è un’esigenza che risponde ad un fine igienico di risanamento idraulico e di lotta contro la malaria, ed al fine di avvalorare territori in condizioni economico-agrarie e sociali ancora primitive.
Politica fallimentare
Nell’uno e nell’altro caso essa richiede investimenti di capitali in agricoltura. I proprietari di terre sono obbligati dallo Stato ad iniziare i lavori di bonifica, e perciò devono costituire i Consorzi. A far parte di essi entrano i grandi e medi proprietari di terre. I piccoli proprietari vi entrano soltanto in alcune regioni come l’Istria e la Sardegna.
Poiché piccoli e medi proprietari non possono sopportare per lunghi anni le spese del Consorzio, ha luogo il loro indebitamento e la conseguente espropriazione. I Consorzi, inoltre, fissano i prezzi di vendita dei prodotti, ed è quindi naturale la tendenza a limitare ed espropriare, proprio mediante la politica dei prezzi, piccoli e medi proprietari. Aggiungasi la politica fiscale, diretta a colpire particolarmente il contadino lavoratore gravato di imposte due volte di più rispetto al proprietario non coltivatore, come conducente di azienda e come prestatore di manodopera. Deriva di qui, dopo il 1927, una diminuzione del numero dei piccoli e medi coltivatori, e la scomparsa di molte piccole e medie aziende formatesi nel primo dopoguerra, o passate di mano ai nuovi acquirenti. E’ questo il periodo in cui a Galatina si vengono formando le nuove proprietà immobiliari ad opera di Pietro Cioffi, di Vincenzo Gaballo, di Antonio Nuzzo, e di altri che hanno raggiunto negli anni Trenta uno status di proprietà medio-grande.
Il dissidio esplode nel congresso sulle bonifiche del 1934 tra coloro che credono che la bonifica debba trovare il suo fondamento nell’espropriazione degli antichi proprietari e nel trasferimento delle terre ai contadini, e chi, invece, sostiene che essa debba venir compiuta soprattutto ad opera dei proprietari medesimi. In seguito a questo contrasto, la bonifica si arresta nel Mezzogiorno alla fase delle opere pubbliche. E’ il fallimento dello stato corporativo causato dalla logica di classe del fascismo. Rimangono gli squilibri ed i fermenti tra le masse popolari che vengono incanalati verso il mito dell’impero, il quale ripropone, sotto altra forma e specie, l’emigrazione interrotta dopo la guerra 1915-1918, allorché contadini e braccianti sono andati a lavorare in America ed hanno mandato in Italia il danaro con cui si sono formate le piccole e medie proprietà di cui abbiamo già parlato.
Naturalmente questi fatti hanno avuto anche a Galatina la loro ripercussione.
E’ significativo che alla guerra d’Etiopia, presentata come espressione di potenza dello Stato fascista, nessun volontario militare o civile proveniente dai ranghi gerarchici e responsabili del fascio locale abbia dato la sua adesione personale. Si registra soltanto la partenza volontaria di due giovani universitari, i fratelli Mario ed Enzo Stasi fu Giovanni, nipoti di Vito Vallone. Essa è forse stata ispirata da convinta adesione alla politica del regime, ma anche da spirito giovanile d’avventura borghese, che in quegli anni è maturato nell’ambito dei littoriali universitari, dove, però, altri giovani come Mario Alicata, Giaime Pintor e Berto Ricci cominciano a convincersi che le idee delle classi dominanti già cessano di essere le idee dominanti, e proprio in Etiopia Berto Ricci patisce la crisi che in punto di morte lo porta all’antifascismo.
Il movimento migratorio dei Galatinesi in Africa è di due specie: sociale ed affaristico. Protagonisti del primo sono braccianti ed elementi provenienti, come si è già detto, dal garzonato dei barbieri, degli autisti e da quello d’officina e delle botteghe d’arte dove il lavoro è scarso e precario. Costoro vanno in Etiopia per sfuggire alla miseria ed alla fame in patria. Merita rilievo il fatto che tra gli emigranti contadini galatinesi non si registrano affittuari, mezzadri, o addetti all’intermediazione agricola. Naturalmente non si fa qui riferimento alle reclute di leva della classe 1911. Va in Etiopia anche qualche sottufficiale dell’esercito, dell’aviazione o della milizia, stimolato dall’onesta ambizione di far carriera, oltre a qualche studente che conclude gli studi medi superiori in colonia per difficoltà incontrate in patria.
Il movimento migratorio di tipo affaristico, invece, si svolge nella seconda metà del 1936, a guerra conclusa. Sono cittadini del ceto borghese e medio borghese (ricordiamo Alberto Ascalone e i fratelli De Gioia, autentici pionieri dell’imprenditorialità in Etiopia), ma anche imprenditori che tentano l’avventura coloniale, incoraggiati da cospicui aiuti dello Stato, e spinti dal calcolo dello sfruttamento di moltitudini diseredate. Segue costoro, in qualità di collaboratori, un certo numero di cittadini galatinesi. Questa gente, al momento della partenza, ignora un particolare importante: il decreto De Bono ha fissato nella colonia Eritrea i salari massimi per non “guastare” il mercato indigeno uso a tariffe molto basse. Questo decreto anticipa la politica dei bassi salari anche per i coloni italiani in territorio abissino. Ciò significa che la guerra coloniale, a differenza di quelle del secolo scorso, non rende più. La guerra etiopica, quindi, si configura come una via aperta alla colonizzazione non del capitalismo italiano, troppo povero ed impoverito, ma di quello anglo-franco-americano. Ed ecco quindi di ritorno in patria a ricominciare una novella vita chi era andato con balda speranza a tentare l’avventura in colonia.
Ancora una volta il fascismo non ha saputo assecondare le masse popolari.
La struttura di classe galatinese resta inalterata nelle sue linee essenziali di ruralità. Non si sposta il perno dello sfruttamento delle classi popolari ad opera della classe borghese-agraria, e non si registra alcuna ricomposizione di nuclei familiari galatinesi in colonia, come è avvenuto nel secondo dopoguerra nei paesi dell’Europa centro-occidentale, malgrado che una legge del 1 giugno 1936 esorti le donne italiane ad accompagnare gli uomini in colonia, per evitare le unioni libere ed il concubinato con donne africane. I meticci vengono presentati come esseri antisociali e rivoluzionari, malati, mentalmente irritabili, inclini all’alcolismo, agli stupefacenti, e per di più contagiati dalla tubercolosi, e gli effetti del meticciato vengono prospettati come tipi umani orrendi. Questa propaganda resta lettera morta.
Per concludere, le oscillazioni demografiche a Galatina, nel triennio 1936-1938 nascono dall’esiguo movimento migratorio di tipo militare e civile in colonia ad opera di Galatinesi. Si è trattato per costoro di un dolore inevitabile, come è sempre una guerra ed un distacco. Ciascuno vi ha partecipato con la sua storia di uomo. Resta di quell’evento il sacrificio di Fortunato Cesari che i Galatinesi ricordano con rispetto.
[Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia, Mario Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 41-44.]