Da quest’ultimo punto di vista, un dato risulta immediatamente e con tale evidenza da sottrarsi ad ogni bisogno di dimostrazione. I classici del meridionalismo parlavano di una scuola che non c’era, di un’istruzione e di una cultura negate. Soprattutto l’accesso alla formazione universitaria era circoscritto pressoché esclusivamente alla classe dirigente e ai ceti abbienti. Su questi due aspetti la realtà di oggi è profondamente diversa. Non c’è paesino del Sud che non abbia le sue scuole e anche il doposcuola e il bus e il docente di sostegno. Le scuole secondarie di quasi tutti gli indirizzi sono facilmente raggiungibili. Ci sono facilitazioni di ogni tipo: tutto quello che i meridionalisti chiedevano e anche qualche cosa in più. Una constatazione analoga si può fare per l’università. La mutata condizione economica delle famiglie permette ai giovani in qualunque campo e luogo di intraprendere studi universitari. Ma sul risvolto della medaglia troviamo: alto tasso di abbandono scolastico, scarsa efficacia ed efficienza dell’azione didattica, alto indice di disoccupazione intellettuale. Certamente ognuno di tali aspetti ha una sua specificazione, ma considerati tutti insieme permettono di constatare come oggi il problematico nesso tra scuola e Mezzogiorno si presenta in termini esattamente capovolti rispetto a quelli denunciati dal meridionalismo classico: non l’assenza di opportunità formative, bensì l’inefficacia e l’inefficienza di quelle abbondantemente offerte rappresentano un limite e un danno per le giovani generazioni e, quindi,per l’intera realtà meridionale.
Perchè, allora, proprio nella scuola, sul terreno della formazione è possibile riscontrare oggi una negatività grave del Mezzogiorno rispetto alle aree più avanzate del Paese e dell’Europa?
Rispondere alla domanda su come si sia potuti giungere a tanto, richiederebbe un discorso a sè, che qui non si può fare, anche se un’esatta individuazione di quelle ragioni darebbe un aiuto non trascurabile per imboccare una strada nuova.
Più urgente è domandarsi quale può essere tale strada nuova? In che modo è possibile fare della scuola un’effettiva opportunità per le giovani generazioni meridionali?
Si possono certo fornire varie risposte, ma saggezza vorrebbe di ritornare proprio agli esiti del dibattito meridionalistico. Avendo comunque presente il severo punto di discontinuità che nel frattempo è maturato . Pressoché per tutto il meridionalismo classico valeva la convinzione che il destino dell’Italia fosse legato a quello del Mezzogiorno. Ma l’antica premonizione di Mazzini, ”l’Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà”, non ha più orizzonte. I problemi dell’area meridionale riguardano solo il Mezzogiorno. Quella meridionale non è più la ‘questione’ nazionale, che tanti avevano teorizzato. Mai come adesso il Mezzogiorno è solo di fronte ai suoi problemi. Una solitudine che è l’effetto non tanto della corrosione progressiva della solidarietà sociale, né dello sgretolarsi del vincolo nazionale prodotto di avventate riforme ( come quella del Titolo V della Costituzione), bensì proprio dei progressi dell’integrazione europea.
Ciò mentre si fa più formidabile l’attacco della criminalità organizzata, non solo per l’estensione (fino a valicare i confini nazionali), ma anche per il livello dei suoi effetti che mirano quasi a produrre un annichilimento del paesaggio civile e naturale. A questo salto di qualità corrisponde un’altra grande differenza, paradossale, del presente rispetto al passato. Larga parte dei problemi che costituivano storicamente la ‘questione’ meridionale venivano dalla difficoltà di agganciare le forze ed i processi della modernizzazione. Oggi è esattamente il contrario, nel senso che la debolezza del tessuto civile e la difficoltà del controllo del territorio consentono a forze potenti di sfruttare a loro favore le enormi opportunità offerte dalla globalizzazione economica e dal flusso mondiale dei traffici.
Sui giovani che si affacciano alla vita e vanno facendosi una prima idea del mondo, questo spettacolo produce un effetto devastante. Perché essi possono constatare con i loro occhi che lo studio, il lavoro, l’impegno personale non solo non sono l’unica strada ma neanche quella privilegiata per raggiungere la meta dell’affermazione di sé e del benessere. Si può essere ‘vincenti’ usando ben più facili strumenti, alla maniera del resto non solo di mafie e di camorre, ma anche di ben altri soggetti come dimostrano le inchieste che hanno investito le Università di Bari e di Lecce, cioè i massimi centri di formazione e di ricerca.
Ed è proprio su questo terreno che si sente più urgente la necessità di riprendere la lezione del meridionalismo classico.
Il dibattito sulla ‘questione’ del Mezzogiorno si chiuse definitivamente intorno alla metà degli anni venti, proprio mentre il fascismo consolidava il suo potere. Le Lettere pugliesi di Fiore, la Rivoluzione meridionale di Dorso, le note su Alcuni temi della quistione meridionale di Gramsci concludevano un cinquantennio di riflessione, non perché gli sviluppi della realtà non lasciassero spazio a nuove analisi e a nuove soluzioni, ma perché si era fatto chiaro il nodo più proprio della “questione”: il fatto che, quale che fosse il problema ( arretratezza economica, analfabetismo, criminalità…) spettava ai meridionali di risolverlo. Non era più tempo di analisi, ma di azione, non di denuncia, ma di lavoro per la soluzione dei problemi. Richiamarsi oggi al meridionalismo significa fare propria questa lezione: agire nella consapevolezza che la ‘questione’ meridionale viene risolta da ognuno di noi ( non da altri, non per delega) nel quotidiano impegno di lavoro, di cittadinanza, di umanità. Anche se è solo attraverso le istituzioni che queste istanze morali degli individui raggiungono la necessaria dimensione etica, si caricano cioè di legittimazione sociale e assumono perciò valore formativo. Si comprende quindi che la scuola è il terreno strategico sul quale si gioca il destino delle giovani generazioni meridionali e il futuro dell’intero Mezzogiorno.
[In “Quaderno di comunicazione” 8/2008, pp. 142-144]