Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia 5. Il plebiscito fascista del 24 marzo 1929

Per intanto ogni giovedì continua a svolgersi, con grande concorso di gente dei paesi limitrofi, il mercato. Esso si snoda nel foro boario al largo dei Bianchini o lungo il corso di Porta Luce per il bestiame, ed il commercio delle derrate e dei cereali ha luogo invece nello spiazzo antistante la Chiesa dell’Immacolata in piazza Alighieri. La compravendita delle scarpe e dei cuoiami avviene lungo la via Pietro Siciliani e quella delle stoffe in piazza San Pietro.

Il 1929 è l’anno in cui tutti i nodi del discorso di Mussolini a Pesaro il 18 agosto 1926 vengono al pettine. Nell’estate di quell’anno gli emissari della casa Morgan ed il governatore della Federal Reserve Bank di New York hanno fissato con il ministro Volpi ed il governatore della Banca d’Italia Bonaldo Stringher le misure dei prestiti che le banche americane sono disposte a concedere all’Italia, ed hanno stabilito, come condizione di essi, la politica deflazionistica del governo italiano. Mussolini può così stabilizzare la lira a quota novanta, un limite da difendere ad ogni costo.  Le conseguenze a Galatina della deflazione finanziaria promossa dal fascismo sono la restaurazione dello status sociale, compromesso ed arretrato tra guerra e dopoguerra, di alcuni strati di media e piccola borghesia a reddito fisso, come gli impiegati pubblici, gli insegnanti ed i proprietari di case. A questi ultimi, peraltro, si deve in quegli anni l’allargamento del pomerio esterno della città a nord-est, ad ovest ed a sud, rispettivamente al di là di via Lillo dopo il largo delle Anime, al di là della Porta Luce lungo via Gallipoli, ed al di là di piazza Toma lungo via Monte Grappa. Questo allargamento segna il primo impulso del successivo incremento edilizio.

Circa il personale impiegatizio, d’altra parte, bisogna dire che, chi scorra i nomi dei funzionari degli uffici pubblici e comunali o degli insegnanti delle scuole di Galatina, nel primo decennio fascista (Paolo Congedo, Francesco Papadia, Ettore Romano per gli uni, Antonio Falco, Eugenio Ratiglia, Fedele Salacino per gli altri), vi rinviene le individualità galatinesi per le quali il fascismo è stato oltre che congeniale costumanza di vita, prima ed ultima ratio della propria esistenza. Per converso alcune frange di media borghesia prendono atto dell’adesione del ceto dirigente galatinese allo Stato autoritario e, certe ormai di non trovare a Galatina garanzia di stabilità, emigrano al Nord, e specialmente a Milano. Sono i Balena, i Campa, i Contaldo, i Liguori ed altri.

1. L’accumulazione capitalistica

E’ questo il momento della restaurazione capitalistica in Galatina dopo la prima guerra mondiale. Essa avviene nell’ora in cui il regime fascista dà al capitale finanziario la possibilità di intensificare lo sfruttamento dei contadini. Non si dimentichi che nel 1925 i fratelli Augusto e Donato Vallone fondano la Banca omonima allogata in via Umberto I. A Galatina già opera, negli ammezzati di casa Mongiò in piazza San Pietro, la Banca popolare cooperativa. Di quest’ultima presiede il consiglio di amministrazione Giacomo Galluccio, e la dirige Luigi Marra. In quegli anni tutti i vigneti del contado galatinese sono danneggiati dalla fillòssera, un minutissimo insetto di origine americana, simile ai gorgoglioni o pidocchi delle piante. Bisogna ricorrere ai concimi minerali ed agli insetticidi di cui in Italia ha il monopolio la Montecatini. Le poche, piccole fabbriche rimaste formalmente indipendenti sono subordinate al trust della Montecatini per mezzo della Banca Commerciale. Al trust è legata anche la federazione dei consorzi agrari, l’organo di distribuzione dei concimi chimici, di altre materie fertilizzanti, delle macchine agricole e di ogni prodotto necessario all’agricoltura. Tutte le operazioni finanziarie inerenti a questo aspetto dell’agricoltura cittadina e del mandamento passano per la Banca Vallone. Si tratta, invero, di un rapporto di reversibilità che in quel preciso momento torna a beneficio della città in generale, ed in particolare di una categoria di cittadini che prende corpo in quegli anni in virtù di un’attività di specializzazione agricola. Facciamo riferimento ai cosiddetti innestatori. Questi nostri cittadini provengono tutti dalla colonìa, dalla mezzadrìa o dall’affittanza, seguono le lezioni della cattedra ambulante d’agricoltura, lezioni coordinate in tutta la provincia di Lecce dal professore Attilio Biasco, e si pongono all’avanguardia per il rinnovamento del vigneto, distrutto dalla fillòssera, mediante l’innesto di nuove gemme nella vite. Nasce così una schiera di medi viti-coltivatori esperti e capaci. Sono i Baldari, i Congedo, i Diso, i Lazzari, i Mariano, i Romano, i Serafini ed altri.

La Banca Vallone trasferisce, mediante prestiti, una certa quantità di capitali in questo investimento. Il laboratorio degli innestatori è una piccola bicocca situata al termine dell’odierna via Ischia, oggi luogo residenziale, ma allora, alla fine degli anni Venti, aperta campagna di proprietà Venturi coltivata dal colono Liberato Congedo.

Intanto sin dal 1925 la battaglia del grano obbliga i nostri contadini ad utilizzare una maggiore quantità di concimi al prezzo imposto dagli industriali e dai banchieri.

Si passa così anche a Galatina dalla restaurazione all’accumulazione capitalistica. La banca fa da intermediaria, trasforma il capitale liquido inattivo in capitale attivo, cioè produttore di profitto, raccoglie le rendite in denaro e le mette a disposizione dei capitalisti. La battaglia del grano consente questa fase di accumulazione, e specialmente a Galatina. Lavorare il terreno più profondamente, impiegare macchine più perfezionate e concimare il terreno di più, significa impiegare per ogni ettaro cospicui capitali. Maggiori capitali vengono spesi per la produzione del grano; ne consegue che il grano viene venduto a più alto prezzo. Il fascismo pertanto introduce il dazio sul grano, l’unico provvedimento che spiega a chiare lettere quella battaglia. Il dazio, difatti, torna lucrativo non al piccolo proprietario, che consuma tutto il grano che produce, né al contadino medio che, producendo per il mercato e spesso non avendo capitali, deve vendere il grano quando ancora esso è sui campi e non è maturo, e prim’ancora che ne sia determinato il prezzo. Accade spesso in quegli anni che l’aumento del dazio venga introdotto alla vigilia del raccolto, quando i contadini medi hanno già venduto il loro prodotto. Compra naturalmente l’usuraio, le banche e il capitalista, che di solito è il grosso proprietario che ha già realizzato maggiori guadagni in virtù di una maggiore quantità di prodotto per ettaro, perché egli ha la terra più fertile, ha le macchine più perfezionate, ed ha investito nella terra una maggiore quantità di capitali. A Galatina questo fenomeno di accumulazione si è svolto a favore di poche famiglie che hanno così consolidato la loro rendita finanziaria.

La “battaglia del grano” è inoltre un tributo imposto a tutti i lavoratori perché essa fa aumentare il prezzo del pane per tutta la popolazione. Perciò quell’iniziativa si risolve in un rafforzamento di tutte le posizioni del capitale e delle banche, ed in particolare a Galatina promuove un sopravvento del capitale finanziario nella campagna. Questo fatto introduce nel Comune metodi di governo diversi da quelli democratici, e precisamente metodi di natura clientelare che durano fino ai nostri giorni, e sposta il rapporto tra le classi dal terreno economico a quello sociale e politico.

2. Il clerico-fascismo

Accanto alla borghesia agrario-capitalista di cui abbiamo parlato, vi è a Galatina un largo strato di borghesia confessionale. Essa ha dato ospitalità in città nel 1928-1929 al barnabita padre Giovanni Semeria, un religioso che è diventato popolare in Italia con le sue prediche sul fronte di guerra nel 1915-1918, volte a contenere i moti di ribellione ed i tentativi di ammutinamento dei nostri soldati contadini che, esausti dalla vita di trincea, accusavano gli operai delle fabbriche di condurre una vita di privilegio. Nel dopoguerra padre Semeria, dopo una breve esperienza modernista, è tutto dalla parte del fascismo, in cui favore, anticipando di venti anni l’opera di padre Lombardi, il microfono di Dio, a pro della Democrazia Cristiana negli anni Quaranta, pone il suo attivismo e la sua eloquenza. Non sfugge, difatti, a questa categoria di borghesi che, per continuare a dominare, è necessaria l’unione dottrinale di tutta la massa religiosa, degli intellettuali e insieme delle anime semplici. Ed ecco allora padre Semeria in visita alla scuola elementare di Santa Chiara ed alla Scuola Complementare e di Avviamento professionale; ed inoltre ricordiamo i contatti con le operaie tabacchine, a dimostrazione che gli strati intellettualmente superiori non si staccano da quelli inferiori. Si persegue il fine di dar corpo nella comunità cittadina ad una filosofia, ad un movimento culturale, diremmo meglio ad una ideologia di tipo religioso, del blocco sociale borghese e dominante. Codesto blocco ideologico si sigilla il 7 luglio 1929, quando prendono possesso della Basilica di Santa Caterina i frati minori. Ne è superiore padre Gian Luigi Blasi.

La borghesia confessionale galatinese ha trovato i suoi consiglieri spirituali. A questo punto ci sono tutti i presupposti per poter formulare una nuova sintesi storica, e parlare di un Novecento galatinese clerico-fascista, laddove altri ha parlato, sempre in riferimento a Galatina di “[…] un Settecento filantropico ed illuminista […]; e di un Ottocento che esplode in figure di primo piano inserite nel discorso sociale e risorgimentale a sfondo popolare che attingeva a squisite forme di cultura […]”.

Invero l’ordine, la stabilità ed il consenso sembra che siano gli elementi costitutivi di unificazione cittadina. Essi sono però soltanto la facciata della realtà esterna. Incarna il mito dell’ordine in città Massimino Carlucci, un ex maresciallo maggiore di origine lucana, che presiede severo, autoritario e per niente indulgente la polizia urbana. E’ un esempio di cesarismo municipale in linea coi tempi. Non razzolano più le galline davanti all’uscio né la massaia insudicia le strade con acqua di verdura, ma chi passa per vico Tanza è colpito da una zaffata di umido, di rinchiuso e di promiscuo. Sono i fermenti che vengono dal Camerone, il dormitorio pubblico occupato in graveolente e vergognosa promiscuità da adulti, vecchi ed anziani che la nuova èra non sa mettere al riparo da un’abietta povertà. E per giunta il cesarismo cittadino non riesce neanche a stroncare il realismo sconcio e sguaiato con cui viene dileggiata la melensaggine locale. L’Angiulinu Pizzulafiche, la Tòta e lu Giuvanni de la Tòta, lu Mannàscari, Mèsciu ‘Ntoni Scannieddhu, lu Ciccotta, lu Del Piànu e lu Chiccu de lu Ciotula sono esemplari antropologici che presentano un ritardo di natura nell’intendere e nel muoversi. La gioventù galatinese, e per essa in particolare i rampolli del perbenismo cittadino meno colto, un po’ per noia provinciale, ma soprattutto perché è educata in quegli anni ad un vitalismo di tipo nuovo, volto al disprezzo del diverso, ma anche del pensiero, per dare valore all’azione ed al successo, anticipa la dottrina razzista che ammette razze biologicamente superiori, e perciò non tollera la presenza di quei miserabili che rendono la città una cloaca gentium, e per mezzo di parole, di scherni e di sberleffi fa prova “di quella violenza che non può essere espulsa dalla storia”, secondo il discorso di Mussolini alla Camera il 3 gennaio 1929. Questo fenomeno non si è mai più ripetuto a Galatina. Fatti del genere hanno vita soltanto quando si perde il senso della misura. Non ci accorgiamo allora di generare l’epopea del comico che ci porta a togliere dalla pianta uomo l’ultimo brandello d’umanità per farne un mucchio di cenci, un fagotto od un fantoccio.

In queste condizioni la città celebra il Plebiscito fascista del 24 marzo 1929.

Il fascio galatinese, pur presumendo di aver risolto tutti i problemi, ha coscienza che resta in piedi quello più importante, la fascistizzazione degli operai, dei contadini e di tutti i lavoratori della città. A Galatina i fascisti hanno distrutto la lega dei muratori e dei contadini e non è più operante l’unica commissione interna, quella dello stabilimento Folonari; è stata bruciata anche la Camera del Lavoro. Tuttavia, i dirigenti del fascio locale sono preoccupati che nelle urne delle votazioni o in qualche altro modo possano manifestarsi la volontà e l’orientamento dei lavoratori galatinesi. Carlo Mauro dopo due anni di confino e di prigionìa decretati dal Tribunale Speciale, è tornato a Galatina il 1 dicembre 1928. Da quattro mesi, pur fiaccato e deluso, ha ripristinato il suo profondo contatto con i lavoratori della città e specialmente col ceto contadino, il nerbo della sinistra galatinese che risiede quasi tutto, come in un ghetto, nel quartiere della Porta Luce. Alla vigilia del Plebiscito, perciò, i fascisti visitano quel quartiere casa per casa e spaventano le donne, perché esse convincano i mariti ed i figli a votare per il regime. La mattina del 24 marzo, giorno del voto, la propaganda si fa più intensa, rispetto alle altre zone della città, lungo Corso Garibaldi, Corso di Porta Luce, Via Gallipoli, Piazza Santo Stefano. Un gerarchetto in camicia nera, fez e stivali perlustra le strade che portano al seggio elettorale in Santa Chiara. Sui muri è ben impressa in vernice a brevi intervalli l’effigie della testa di Mussolini, e via via, tra una finestra e l’altra, fanno bella mostra di sé le locandine su cui, in senso verticale e con caratteri vistosi, si legge SI’ SI’ SI’, cioè la risposta che gli elettori sono invitati a dare alla domanda: Approvate voi le liste dei deputati designati dal Gran Consiglio del Fascismo?

Noi non possiamo segnalare episodi come quello di Valdagno dove su 531 votanti, allo spoglio delle schede escono 531 NO o di Castel San Pietro e San Giovanni in Persiceto dove i NO superano i 400, cioè la maggioranza dei votanti, o di Savigliano, dove gli opera della locale industria metallurgica nazionale sono obbligati, musica in testa, a recarsi inquadrati alle urne, e tuttavia in una sola sezione di 245 votanti fanno contare ben 240 NO.

Il 24 marzo 1929 la differenza di colore tra le schede del SI’ e del NO, possibile a intravedersi dall’esterno della busta, ha fatto sì che la maggioranza dei contrari al regime o si sia astenuta dal votare o abbia votato Si’, persuasa che “non si poteva fare altrimenti”.

E’ certo tuttavia che non di un plebiscito si è trattato, cioè non di un voto popolare, bensì di una nuova sopraffazione organizzata e di un nuovo sopruso.

[Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia, Mario Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 35-39.]

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