Alle origini della politica laica Marsilio da Padova e la crisi politica di inizio Trecento

“Prima che l’uno o l’altro dei candidati designati dai prìncipi elettori sia stato approvato o disapprovato dalla Sede apostolica, non è permesso ad alcuno degli eletti di prendere il potere e il titolo di re dei Romani, dato che in quest’intervallo non sono re dei Romani ma eletti come re, e non sono né da nominare né da ritenere come re”.

Il papa ammonì inoltre Ludovico per non aver sollecitato l’approvazione papale e per aver appoggiato i Visconti e lo convocò, sotto pena di scomunica, ad Avignone, entro tre mesi, per giustificarsi. .
Dopo lunghe esitazioni Ludovico il Bavaro decise di passare alla lotta aperta e il 18 dicembre 1323 alla Dieta di Norimberga espose le sue ragioni. Dopo aver manifestato la sua fedeltà alla Chiesa e la sua devozione al papa, Ludovico gli contestava il diritto di esaminare il re dei Romani, perché quando questi è eletto da tutti o dalla maggioranza degli elettori ed è incoronato nella sede tradizionale, è re legittimo e tale deve essere ritenuto. Alla scomunica lanciata da Giovanni XXII con la bolla Urget nos caritas del 23 marzo 1324 , Ludovico replicò con l’appello di Sachsenhausen del 22 maggio, che accusava il papa di creare divisioni tra i fedeli, di voler distruggere l’impero, di fomentare le guerre in Italia invece di stabilire la pace, di calpestare il Vangelo e di essere eretico manifesto, perché negatore della povertà assoluta di Cristo e degli apostoli. Chiedeva, infine, la convocazione di un Concilio per designare il successore di Giovanni XXII . Come si vede, Ludovico ricorre all’accusa di eresia, che già era stata adottata da Filippo il Bello nei confronti di Bonifacio VIII, e che, se comprovata nella sua fondatezza, poteva consentire ad un Concilio ecumenico di destituire anche il papa. La mossa di Ludovico si intrecciava con la simmetrica lotta che contrapponeva il Papa ai frati minori Con la bolla Cum inter nonnullos del 12 novembre 1323, Giovanni XXII aveva messo fine all’acceso dibattito riguardante la povertà di Cristo e degli apostoli, in cui erano particolarmente coinvolti i Frati Minori[1]. Egli dichiarò eretica l’affermazione che Cristo e gli apostoli non possedettero nulla, né individualmente né in comune; inoltre condannò come contraria alla fede la tesi che Cristo e gli apostoli non ebbero alcun diritto d’uso, di vendita e di alienazione sui loro beni. Nell’ordine dei Minori si delinearono ben presto due schieramenti: la maggior parte dei frati si sottomise alla decisione papale, mentre gli oppositori più accaniti non tardarono ad allearsi con l’imperatore Ludovico IV il Bavaro. Facevano parte di questo gruppo di dissidenti: Francesco D’Appignano, Michele da Cesena, Guglielmo d’Ockham, Bonagrazia da Bergamo e Francesco d’Ascoli. Nel maggio 1328, fuggiti da Avignone, dove risiedeva la curia papale, avrebbero raggiunto Ludovico prima a Pisa e quindi a Monaco di Baviera. All’appello di Sachsenhausen, il papa rispose con la bolla Sicut ad curam dell’11 luglio 1324, in cui dichiarava indegno del regno e dell’impero il duca dell’Alta Baviera, lo scomunicava di nuovo e scomunicava tutti coloro che gli ubbidivano e lo aiutavano; lanciava inoltre l’interdetto su tutte le comunità (città, università e conventi) che gli venissero incontro con aiuto, asilo e consiglio. Lungi dal placarsi, quindi,  il conflitto tra il papa e Ludovico il Bavaro si inaspriva sempre più. Il 31 maggio 1327 l’imperatore decise di venire in Italia.

Come testimonia il guelfo Giovanni Villani[2], già

Negli anni di Cristo 1326, nel mese di Gennaio per cagione della venuta del duca di Calavra in Firenze, i ghibellini e’ e tiranni di Toscana e di Lombardia e di parte d’imperio mandarono loro ambasciatori in Alemagna a sommuovere Lodovico duca di Baviera eletto re dei Romani, acciocché potessono resistere e contrastare alle forze del detto duca e della gente della Chiesa, ch’era in Lombardia.

Ma fu con la venuta nella penisola che si riaccende furioso lo scontro tra guelfi e ghibellini, come testimonia ancora Villani

“…incontinente, e in quello medesimo tempo si commosse quasi tutta Italia a novitade; e’Romani si levarono a romore e feciono popolo (…) e mandarono loro ambasciadori a Vignone in Proenza a Papa Giovanni, pregandolo che venisse colla corte a Roma, come dee stare per ragione; e se ciò non facesse, riceverebbono a signore il loro re de’ romani detto Lodovico di Baviera; e simile mandarono loro ambasciadori a sommuovere il detto Lodovico chiamato bavaro”.

Tuttavia, il senso dello scontro politico che doveva attraversare la penisola era ben diverso: <[3], se non il travestimento”ideologico” della lotta per l’egemonia di città-stato già avviate a divenire  stati regionali, e all’interno di ciascun centro, il contrasto tra fazioni ha carattere politico o sociale” . In questo specifico scenario la Chiesa si appoggiava al re di Napoli Roberto d’Angiò, che era stato nominato ( dal Papa) vicario imperiale in Italia; mentre lo schieramento ghibellino si presentava ricco e articolato, perché andava da Federico d’Aragona a Matteo Visconti duca di Milano e comprendeva personalità  di grande rilievo come Castruccio Castracani a Lucca o Cangrande della Scala, signore di Verona, ma anche, sempre nell’area settentrionale Amedeo V, conte di Savoia, deciso a sbarrare la strada alle pretese espansionistiche degli Angioini in Piemonte. Doveva partire così una rimonta delle forze ghibelline particolarmente significative in Toscana e in Romagna e nelle Marche. Mentre la conquista della Sardegna da parte di Giacomo II d’Aragona, senza alcun intervento di Roberto d’Angiò doveva mostrare tutta lo distanza che ormai lo separava da Giovanni XXII. Uno dei punti centrali di tensione riguardò proprio il titolo imperiale. Mentre Roberto sosteneva la candidatura di Federico d’Austria (nel 1316 un figlio di Roberto aveva sposato una sorella di Federico, ricevendone così il titolo di vicario imperiale nei territori guelfi), il papa, come abbiamo visto, non  avallò questa scelta.

Con questa complessa  situazione s intrecciano l’esperienza politica e la riflessione teorica di Marsilio da Padova. La suo Defensor Pacis, completato nel 1324 e pubblicato anonimo, fu, come ha scritto Cesare Vasoli, in ( p. 586).

Tuttavia, considerando il tema centrale della riflessione di Marsilio,  cioè il rapporto tra potere politico e fede religiosa, tra leggi umane e principi etico-religiosi, occorre riflettere sul fatto che, se per un verso Marsilio vive direttamente lo scontro con il papa schierandosi completamente e radicalmente dalla parte dell’imperatore, dall’altra che la sua riflessione non si esaurisce nell’obiettivo di trovare argomenti giuridico-filosofici a sostegno della tesi ghibellina. Marsilio si prefigge, e questo va sottolineato come vero dato di novità,  l’obiettivo di definire il fondamento e le ragioni di una comunità politica nell’orizzonte delle finalità umane, mondane, storiche; un obiettivo che, evidentemente, ne richiamava un altro: quello riguardante i motivi dei contrasti e delle lacerazioni , che erano alla base della presente situazione. Proprio per questo sarebbe decisivo stabilire un confronto possibile fra i contenuti della sua riflessione, il linguaggio scolastico che la veicola, con la realtà storico-politica non solo di Padova, comune caratterizzato da un notevole sviluppo economico e civile, ma anche di Parigi, cioè del ‘centro’ di quella realtà politica nuova che era la monarchia nazionale , in cui si manifestava, tra l’altro, un conflitto con l’autorità papale.

Marsilio da Padova: la pace condizione del benessere

Alla base della riflessione di Marsilio c’è il convincimento che gli uomini tengano ‘naturalmente’ al raggiungimento di una ; ogni individuo, quindi, afferma la tendenza naturale a perseguire il proprio vantaggio per conseguirne un proprio personale soddisfacimento. Seguendo Aristotele nell’idea che l’uomo è animal naturaliter politicum, Marsilio ritiene che le istituzioni sociali, le Civitates, cioè la famiglia, il villaggio, ecc., siano funzionali a questa naturale tendenza dell’uomo. Ne consegue, tuttavia, in questo contesto una situazione di potenziale conflitto, di ‘contese’, ‘ingiurie’, ‘dispute’, ‘scandali’, naturalmente insorgenti nell’umana società.

Poiché tale conflittualità è generata dalle tendenze e volontà particolari dei singoli, si richiede che ogni comunità o associazione umana sia basata su una precisa regola di giustizia e su un rigoroso codice di leggi.

Attraverso un’esemplare analisi Marsilio scandaglia le valenze semantiche del termine ‘legge’ per distinguerne quattro accezioni principali:

  • a) legge come pulsione fisica ad agire o desiderare;
  • b) legge come regola produttiva, come ‘metro di costruzione o elaborazione;
  • c) legge come regola di comportamento finalizzata alla salvezza;
  • d) legge come insieme di principi che permettono di distinguere il giusto ed il vantaggioso dal punto di vista civile.

Ed è proprio quest’ultima definizione che interessa Marsilio. Egli perciò la scompone in due altre distinte accezioni:

  1. Legge come l’insieme degli enunciati puramente teorici. In questo senso essa è una  ‘scienza’, una ‘dottrina del diritto’ ;
  2. Legge

Proprio quest’ultima definizione è stata considerata non solo la pietra di volta della costruzione teorica di Marsilio, ma anche la più evidente frattura rispetto alla riflessione politica precedente. È sufficiente a questo proposito un veloce raffronto con l’analoga teoria tomistica, la quale considerava fonte di ogni legge, quindi anche di quella ‘naturale’, la legge eterna che, per S. Tommaso, governa tutto l’universo ed emana direttamente dalla ‘mente’ di Dio. Ne consegue che .

Su questa base, il principio largamente diffuso nella trattatistica politica medioevale, secondo il quale , acquistava un preciso significato: è vero che la collettività, la , è la fonte dell’ordinamento della legge, in quanto , ma essa riflette la ‘ legge eterna’ e quindi la volontà stessa di Dio. Per questo S. Tommaso può indicare, senza contraddizione, tanto la collettività che ‘la persona che ha cura della collettività’ come fonte della legge.

Rispetto a questa visione le tesi di Marsilio producono un’evidente frattura. A differenza d S. Tommaso e dei teorici ierocratici, infatti, egli non fa discendere la legge umana da quella divina e, conseguentemente, non identifica , che è la meta regolativi della legge, con l’adeguamento dei comportamenti umani al disegno divino, bensì con di ogni singola comunità, cioè con l’eliminazione di conflitti o squilibri che ne minaccino l’organica esistenza. Tale differenza è ancor più evidente se si usa  il concetto di come ‘marcatore’ della discontinuità tra la prospettiva di Marsilio e il contesto teorico nel quale si muoveva. Il suo punto d’origine può, forse, essere assunto come base della sua valenza semantica. Nell’Ecclesiasticus si legge: ( Siracide, 5, 1). Dove, evidentemente, la vita sufficiens è identificata con le possessiones, quindi con il benessere se non con  la ricchezza. Di essa non si può dire che si dà una valutazione negativa, ma non è certamente indicata come valore proprio del fedele.

In Aristotele, auctoritas per eccellenza, il problema della vita sufficiens sembra riecheggiare in un celebre  passo della Politica, là dove egli indica qual è la finalità propria di una comunità:

La comunità formata di più villaggi, è la ‘polis’, nella sua compiutezza, perfetta ( tèleios pòlis ), che raggiunge oramai, per così dire, il termine dell’autosufficienza ( autàrkeia ) completa. Costituita sì per rendere possibile vivere, in realtà essa esiste,  perché sia possibile vivere bene. Per questa ragione ogni ‘polis’ è per natura, sì come per natura esistono le prime comunità : essa è il loro fine; la natura è il fine (…) l’autosufficienza, dunque, è il fine e ciò che vi è di migliore   ( 1252 b- 1253 a).

Anche S. Tommaso si confrontò con la Politica di Aristotele, tradotta in latino intorno al 1267 da Guglielmo di Moerbeke, e In octo libros Politicorum Aristotelis expositio riprende l’idea che

<< La città è stata fatta inizialmente in vista del vivere ( gratia vivendi) , cioè affinché gli uomini trovassero a sufficienza ciò di cui potessero vivere, ma dal suo essere deriva non solo che  gli uomini vivano, bensì che vivano bene ( quod bene vivant), in quanto attraverso le leggi della città la vita degli uomini è ordinata alle virtù>> ( Proemium, 31).

Dove è abbastanza evidente che S. Tommaso, pur seguendo Aristotele, non  pensa che essa è fine a se stessa, ma che sia  mezzo di un fine a essa trascendente, come è detto più esplicitamente altrove  ( cfr. Summa theologiae, I  II , q. 91, aa 1-4). Per S. Tommaso vivere bene significa vevere beate; sicché, cambiando la natura del vivere, cambia anche il senso del vivere stesso. Ben diverso il ragionamento di Marsilio. Proprio all’inizio del Defensor pacis scrive:

(Defensor pacis, I, 1).

Dunque, la definizione della legge come precetto coattivo legato a una punizione o a una ricompensa, in funzione del mantenimento della pace, comporta due fondamentali conseguenze: il carattere positivo della legge, e dei mezzi coercitivi connessi; ed il carattere funzionale dello Stato, cioè dell’autorità che deve amministrare la legge. Entrambe le conseguenze implicavano, ovviamente, l’esistenza di un principio ordinatore, ovvero di una base di legittimazione, che egli identifica nella . Su questo concetto occorre soffermarsi un momento. L’espressione , o anche , usate da Marsilio richiedono, infatti, di essere precisate, per non incorrere nell’errore di letture anacronistiche o anticipatrici. In quel concetto c’era certamente un’influenza importante di Aristotele che, tra l’altro, identificava la cittadinanza non sulla base del criterio di eguaglianza, bensì su quello discriminante, dell’ ‘ agio’ e della ‘ prudenza’, delle ‘virtù’ che rendevano i cittadini atti all’esercizio degli uffici pubblici, in quanto consentivano di conoscere ciò che giusto e vantaggioso per la comunità. Anche Marsilio adotta un analogo criterio discriminatorio, perché esclude dalla i bambini, gli schiavi, gli stranieri, e le donne. Ma ancor più significativo è il criterio di inclusione che egli segue, che è quello dell’appartenenza sociale, al  o alla , cioè un criterio basato sulla dignità derivante dalla funzione sociale che l’individuo esercita all’interno della ‘ civitas’. D’altra parte, come è stato sottolineato da tanti studiosi, nella teorizzazione di Marsilio c’è un evidente riflesso delle costituzioni statutarie del Comune di Padova che assegnavano il potere legislativo al , espressione della maggioranza dei cittadini, che aveva il potere di nomina del Podestà, con funzioni esecutive. Anche le istituzioni comunali padovane, come tante altre, erano finalizzate .( Vasoli, 587-8) Ma il fatto che Marsilio non anticipi Montesquieu o Rousseau, non toglie nulla alla grandezza della svolta teorica che egli elabora.

Come ha sottolineato soprattutto Gewirth[4], Marsilio rovescia il centro del problema politico: dal ’governo’ al ‘ legislatore’.

Defensor pacis, I, 12, 8 )

Senza voler forzare nulla, si può dire che è solo questo il punto in cui Marsilio apre alla modernità ma è proprio su  questa centralità del ‘legislatore’ che si definisce il problema che ha maggiormente impegnato la critica, sia sul versante filologico sia su quello più propriamente interpretativo: quello relativo al celebre concetto di , quale possibile base di legittimazione della legge positiva e quindi dello stato che deve gestirla. Alcuni critici hanno osservato che la formula è logicamente incompatibile con quella di o di , aprendo così verso una interpretazione del pensiero di Marsilio in chiave se non aristocratica certo oligarchica.

Le difficoltà nascono dal fatto che il concetto è interpretabile sia da un punto di vista immediatamente quantitativo ( la parte prevalente in senso numerico), sia dal punto di vista della di chi partecipa alla vita pubblica e che, per sapere e capacità, ne può sostenere le sorti con senso di responsabilità. Del resto, Marsilio aveva specificato che la andava intesa . Non è una forzatura sostenere che, in piena sintonia col suo tempo, ma con grande coraggio innovatore, Marsilio definisca la legittimazione del potere sulla base di un equilibrio tra il fattore numerico e quello ‘ qualitativamente’ rilevante. Appare perciò ragionevolmente escludibile che la formula della possa essere interpretata come governo della , così come che possa significare, sic et simpliciter come governo di ‘ pochi saggi’ o potenti.

Più rilevante è invece chiedersi in base a quale criterio il concetto di può essere assimilato a quello di . Si può dire che in Marsilio quel criterio assume una doppia valenza: una negativa e una positiva. La negativa consiste nell’esclusione dalla sfera politica della possibilità di perseguire un vantaggio privato; quella positiva, naturalmente opposta alla prima, nella necessità che il potere politico persegua il bene comune.

Occorre partire da qui per affrontare anche l’altro tema, intrecciato con questo, relativo a chi legittima il potere e chi lo gestisce; tra e . Un problema tanto più complesso perché riflette una divergenza di modello e di prospettiva politica tra la prima e la seconda dictio del Defensor Pacis, per non parlare del Defensor Minor. Come è noto, nella prima dictio del Defensor pacis Marsilio pone fortemente l’accento sulla differenza fra , cioè del potere esecutivo, dalla , cioè dalla fonte di legittimazione del potere; mentre nella seconda dictio egli protende manifestamente per l’autonomia del , che lascia prefigurare un modello politico di tipo assolutistico. Per comprendere questa divergenza di prospettive politiche, che si configura come contraddittoria, occorre tener presente il testo di Marsilio:

Ogni tutto, infatti, è maggiore della sua parte, sia nell’azione che nel discernimento;  e tale fu indubbiamente l’opinione di Aristotele nella Politica, libro III, capitolo VI quando disse: “ perciò la moltitudine è giustamente sovrana nelle cose più importanti”, cioè, la moltitudine o l’intero corpo dei cittadini o la sua parte prevalente, che egli indica qui con il termine ‘moltitudine’, dovrebbe giustamente dominare nei riguardi di quelle cose che sono più importanti  per la polìtia>> E poi di nuovo cita direttamente Aristotele che definisce il concetto di multitudo identificandolo con quello di popolo : .

E Marsilio commenta:

Defensor pacis, I, 13, 4 )

Il rapporto tra lo Stato e la Chiesa

Su questo sfondo Marsilio colloca la sua soluzione del potenziale rapporto tra impero e chiesa: una delle sue preoccupazioni politiche centrali. Come ha scritto Cesare Vasoli[5]: .

D’altra parte, la riflessione di Marsilio su questo terreno è particolarmente innovativa. Egli mette in evidenza come stato e chiesa, se per un verso sono estranei l’uno all’altra, per altro verso sono in stretto rapporto. L’uno e l’altra infatti governano, per così dire, sugli stessi uomini i quali sono al contempo cives e fideles. In quanto cives essi tendono naturalmente alla , cioè al benessere  e in questo modo essi occupano i diversi ruoli della ‘ civitas’ banchieri, commercianti, notai, ecc.; in quanto fideles, essi partecipano, invece, di una disciplina esclusivamente spirituale, che li orienta alla e che, quindi, li obbliga a trascurare ogni valore mondano. Da un lato la vita presente, dall’altro la vita futura.

Questa, per così dire ‘convergenza divergente’ di stato e chiesa, il fatto che esse considerino l’individuo in due distinte prospettive, consente a Marsilio di definire non solo il diverso carattere delle due istituzioni, come già detto, ma soprattutto di precisare i rapporti fra esse. Gli individui, in quanto fideles, costituiscono un , la , simmetrica e distinta dalla. Egli non identifica la chiesa con la gerarchia o con il sacerdozio, bensì con l’intero corpo dei cittadini che .

Dove, tuttavia, non è tanto la formulazione, abbastanza diffusa, che è importante, quanto il fatto che Marsilio consideri la analogamente alla depositaria del potere di emanare le leggi, quindi la pone come vera e propria base di legittimazione dell’autorità. Dunque, in opposizione ai teorici ierocratici, che sostenevano la , Marsilio affida alla universitas fidelium non solo il controllo di tutte le decisioni dell’autorità ecclesiastica, ma le riconosce perfino il potere di deporre il papa. Una volta definita la simmetricità tra e emerge tutta la loro inconciliabilità, che inevitabilmente si riverbera come separazione fra chiesa e stato.

La discesa in Italia di Ludovico il Bavaro

Così, mentre divampava la polemica politica e quella religiosa e mentre si avanzavano ardite teorie politiche, l’imperatore, nel marzo del 1327 scende in Italia. A Milano alcuni vescovi di parte ghibellina lo incornano re d’Italia. Giunto a Roma, nel gennaio del 1328, fu accolto da Sciarra Colonna e, dopo aver chiesto, su consiglio di Marsilio da Padova, l’investitura imperiale al popolo romano, fu incoronato in San Pietro proprio dal chi aveva oltraggiato Bonifacio VIII. Le decisioni che ne seguirono furono tanto eclatanti sul piano formale quanto inconsistenti da quello politico: la deposizione del papa di Avignone, l’obbligo  per il papa di risiedere stabilmente a Roma, la nomina imperiale di un nuovo papa individuato in Pietro da Cortona, un ‘fraticello’, emulo di Pietro da Morrone, che prese il nome di Martino V. Ma fu sufficiente che il vicario del duca di Calabria, Filippo di Sangineto, occupasse Pistoia, del cui ducato era stato ufficialmente investito dall’imperatore Castruccio Castracani, perché questi abbandonasse frettolosamente la corte imperiale romana, mostrando così di tenere più alla difesa dei suoi territori che a alla causa ghibellina. Era un segnale. In agosto l’imperatore lasciò Roma per Pisa, dove lasciò Martino V al suo destino per rientrare in Germania.

Intanto Giovanni XXII cerca in tutti i modi di farlo destituire. Una nuova elezione da lui incoraggiata e già decisa da alcuni prìncipi elettori non giunge a compimento. Ludovico, in un primo tempo, abdica all’impero (1331) in favore di Enrico di Baviera. Tuttavia gli intrighi di Roberto d’Angiò, i consigli del cardinale Napoleone Orsini e dei frati minori ribelli al papa e passati dalla sua parte, inducono Ludovico a dichiarare il 24 luglio 1334 che non ha inteso rinunziare. Ma c’è di più: la questione della visione beatifica, sollevata da Giovanni XXII negli ultimi anni del suo pontificato , spingono Ludovico e i frati minori del suo entourage a raccogliere una serie di tesi eretiche, da aggiungere a quelle già riscontrate nei testi concernenti la povertà di Cristo e degli apostoli, per intentare un processo teologico contro il papa in un concilio che lo deponga. Ma il 4 dicembre 1334 Giovanni XXII muore.
Nella primavera del 1335, Ludovico avviò trattative diplomatiche col nuovo papa Benedetto XII (1334-1342), per arrivare ad una composizione pacifica del conflitto tra sacerdotium e imperium . Nonostante la grande arrendevolezza dei legati imperiali, i negoziati fallirono a causa delle pressioni esercitate sul papa da Filippo VI re di Francia e da Roberto d’Angiò, che non voleva perdere il vicariato imperiale sull’Italia. La situazione così tesa portò alla dichiarazione di Rhens di tutti i prìncipi tedeschi (eccetto Giovanni di Boemia) del 16 luglio 1338. In essa proclamarono che il re dei Romani, eletto dalla totalità o dalla maggioranza degli elettori dell’impero, non aveva bisogno di alcuna nomina, approvazione, conferma o autorizzazione da parte del papa per amministrare i beni e i diritti dell’impero e per prendere il titolo di re . Nella dieta tenuta a Francoforte nel successivo mese di agosto, Ludovico emanava la costituzione Licet iuris (6 agosto 1338), in cui definiva solennemente, dal suo punto di vista, i diritti dell’impero:

“Noi dichiariamo […] con il consiglio ed il consenso degli elettori e di tutti gli altri prìncipi dell’impero che la dignità e il potere imperiale deriva direttamente da Dio solo, e che secondo gli antichi e provati diritti e tradizioni dell’impero, colui che è eletto re o imperatore dagli elettori dell’impero, all’unanimità o per maggioranza, deve essere considerato ed acclamato, da quel momento e per il solo fatto dell’elezione, legittimo re ed imperatore dei Romani; e che tutti i sudditi dell’impero gli devono obbedienza e che egli ha il pieno potere di amministrare le proprietà e i diritti dell’impero e di compiere tutto ciò che è pertinenza di un imperatore legittimo, senza necessitare dell’approvazione, conferma ed autorità e consenso del papa, della Sede apostolica o di chiunque altro” .
Nella primavera del 1339, in una nuova dieta a Francoforte, i prìncipi elettori andarono oltre le loro precedenti dichiarazioni, affermando che il papa non aveva alcun diritto di esaminare il candidato all’impero; che era obbligato a consacrare colui che gli veniva proposto dagli elettori; e che in caso di rifiuto, qualunque altro avrebbe potuto consacrare l’imperatore.

In quei primi decenni del Trecento, dunque, mentre i papi avignonesi combattevano contro l’imperatore le loro ultime battaglie  a sostegno delle pretese ierocratiche si andava delineando, come ha scritto Franco Cardini[6] .

[in Quaderni del Liceo Scientifico Statale “Cosimo De Giorgi”, Lecce 2013, pp. 157-166].

BIBLIOGRAFIA

BERTI E. 2003. Il concetto di ‘bene comune’ di fronte alla                                                                                                                                                sfida del terzo millennio, Atti del  Congresso Tomista Internazionale, Roma 21-25 sett.

CARDINI  F. 1982.    Società italiana e papato avignonese, Storia della società italiana, Milano vol. VII, pp 251-280.

GARFAGNINI GC. 2005.  Alcune osservazioni intorno al Defensor Pacis di Marsilio da Padova, Annali del Dipartimento di Filosofia, Firenze, pp. 33-41.

Gewirth, A.J., 1951. Marsilius of Padua. The Defender of Peace. Vol. I: Marsilius of Padua and Medieval Political Philosophy, New York.

IOZZELLI F: 2003.  Atti del Convegno Internazionale su Francesco D’Appignano, Spolia , Giournal of Medieval Studies Roma.

MARSILIO da PADOVA 1324.  Defensor Pacis, trad.it. A cura di Cesare Vasoli, Torino, 1991.

VASOLI C. 1983. Papato e Impero nel tardo Medioevo: Dante, Marsilio, Ockham, Storia delle idee politiche, economiche e sociali, Torino vol.II, pp.543-667.

NOTE


[1] Padre Fortunato Iozzelli ha tratteggiato lo sfondo storico in cui si inserisce l’adesione di Francesco D’Appignano e dei suoi confratelli, Michele da Cesena e Guglielmo da Ockham alle tesi di Ludovico il Bavaro contro Giovanni XXII. Cfr: Iozzelli 2003.

[2] Cfr.: Vasoli 1983.

[3] Cardini1982.

[4] Gewirth 1951.

[5] Vasoli 1983.

[6] Cardini 1982.

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