Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia 4. Il fascismo galatinese come ideologia dei ceti medi

Il fascismo si è presentato anche a Galatina come un fenomeno di rara complessità. In quel particolare momento esso è stato in primo luogo un fenomeno di reazione agrario-capitalistica. Difatti anche a Galatina l’estrazione sociale degli esponenti fascisti della prima ora va cercata in non più di tre o quattro casate cittadine alto-borghesi: Bardoscia, Colona, il ramo di Domenico Galluccio, Venturi. Il fascismo però non è stato unicamente reazione agrario-capitalistica, ma ha compreso nello stesso tempo molti altri elementi: un movimento delle masse piccolo-borghesi rurali, e mezzadri, affittuari, piccoli coltivatori agricoli sono stati in gran numero all’avanguardia del movimento fascista.

Bisogna aggiungere che il fascismo è stato anche prassi di lotta politica condotta da certi rappresentanti della piccola e media borghesia, contro una parte delle antiche classi dirigenti. A Galatina, infatti, all’origine del fascismo locale troviamo più di una spiccata personalità individuale, per esempio qualche maestro elementare bene amato dal popolo, che in nome della  propria pedagogia politica fascista, ha sempre ritenuto in buona fede di spezzare una lancia, e l’ha spezzata, a favore dei ceti popolari. Pensiamo al maestro elementare Antonio Falco di cui frequentemente si è ricordata la frase d’esordio di un suo discorso politico pronunciato dal balcone del Circolo cittadino in via Vittorio Emanuele, nei primi anni Venti, quando già fervevano le trattative per la successione fascista nell’amministrazione comunale: “E’ la prima volta che un figlio del popolo parla dal balcone del comando”. C’è in questo epigrafico periodo l’impeto del neofita, ma anche la sincera professione di fede nel fascismo a favore dei ceti popolari.

Aggiungiamo che, se il fascismo non è mai stato a Galatina una organizzazione di tipo militare, come invece è accaduto altrove, tuttavia è stato un tentativo di creare un’organizzazione unificata raggruppante una frazione di piccoli borghesi declassati (ex ufficiali, disoccupati, ecc.), adagiatisi successivamente nelle comode sinecure degli impieghi municipali.

Se consideriamo tutti questi elementi, allora ci rendiamo conto che l’evoluzione del movimento fascista non è stata determinata esclusivamente dal fine verso il quale hanno teso la borghesia e gli agrari, cioè quello di rompere la forza del proletariato, ma è stata anche influenzata da altri motivi di carattere diverso e da altri impulsi, sorgenti dal seno stesso del movimento fascista, ed in certi momenti, volti anche a dominarlo. Alludiamo, in modo particolare, alle contraddizioni presenti nel fascismo locale, in seno alle masse medie e piccolo-borghesi. A questo proposito a Galatina si riproduce una situazione che la critica storica ha assunto come una caratteristica di tutto il Mezzogiorno. Vediamo di fissarne le linee maestre.

Da una parte c’è il gruppo dirigente democratico e repubblicano stretto attorno alla famiglia Vallone; mancano nuclei liberali e nittiani. C’è poi il partito popolare, l’unico che nel campo borghese potrebbe conservare una sua autonomia ideale ed uno schema organizzativo autonomo tale da garantirgli l’appoggio di forze reali nella resistenza al fascismo; ma non ha capi degni di questo nome e chi vi esercita funzioni dirigenti non ha coraggio né coerenza. I fratelli Gizzi, per esempio, dissolvevano tra parrocchia e Circolo cattolico, da loro presieduto, la loro fede, senza proiettare luce ideale di resistenza tra le forze reali che in quei sodalizi si aggregavano.

Eppure quelle cattoliche sono le sole organizzazioni legali non fasciste che esistono a Galatina, come del resto in tutta l’Italia, e forse i lavoratori che esse aggregano sono più avanti nello sviluppo della loro coscienza che la grande massa che subisce il dominio delle organizzazioni fasciste, ma esse non sono mai giunte sul terreno della organizzazione di classe.

Resta il proletariato. Gli operai e i contadini sono il solo elemento antifascista presente a Galatina, perché essi hanno profonda coscienza della missione di restaurazione capitalistica propria del fascismo. Queste masse hanno un capo ed una guida sicura, l’avvocato Carlo Mauro, che le comprende e sa interpretare le loro esigenze immediate e la necessità di soddisfarle. C’è in quest’uomo quella condizione di spirito propria di chi esprime la sua rivolta contro l’ordinamento sociale nel quale è costretto a vivere, e propria di tutti coloro che, usciti dal seno della borghesia o della piccola e media borghesia, per dedicarsi al proletariato, non si appagano finché non sono riusciti, anche nella loro vita privata, a rendersi uguali ai più umili ed oscuri proletari. In questo Carlo Mauro è stato diverso da tutti gli altri dirigenti del partito socialista galatinese di quegli anni, Fedele Liguori, per esempio, o Carmine D’Amico, e prima ancora Paolo Vernaleone. Carlo Mauro, difatti, ha rotto nettamente con la classe dalla quale è uscito, e si è legato alla classe operaia in modo organico, e con essa ha lottato fino alla morte. Si devono soltanto a lui ed all’opera sua i pochi tentativi che sono stati fatti a Galatina, durante il ventennio, di rompere la legalità fascista, e soltanto per motivazioni economiche e di carattere quasi sempre limitato ed immediato. Per lunghi anni la massa proletaria non ha combattuto più grandi battaglie e quindi non è apparsa organizzata e non ha potuto pretendere di imporre alle locali gerarchie del fascismo il riconoscimento della propria organizzazione. Si è trattato di brevi episodi di lotta che ha tuttavia turbato profondamente i piani economici e del consenso popolare del fascismo locale. Questa lotta si è sviluppata ora come protesta ed agitazione perché il contratto di lavoro non è stato rispettato, ora perché una clausola di esso è stata applicata a danno dei lavoratori, ora perché è stata chiesta una riduzione di salario. Non si può negare che il malcontento delle masse proletarie a Galatina è stato generale, diffuso, molto grave, ed anche se è stato ben lontano dal rovesciare piani economici o determinare una nuova situazione politica, ha però determinato spostamenti e correnti che si sono mosse in cerca di una via idonea a sottrarsi al dominio fascista e ad organizzarsi per essere in grado di combatterlo. Al grado più alto di questa tensione è giunto il rapporto tra concessionari di tabacco, coltivatori locali e tabacchine, per una valutazione meno contenuta e ristretta del prodotto lavorato a favore dei coltivatori e per il miglioramento del salario a favore delle tabacchine.  In quegli anni a Galatina non c’è stata famiglia rurale in cui non abbia serpeggiato, palese o nascosto, un vivo malcontento in conseguenza di quel rapporto.

Soltanto alla caduta del fascismo i nodi di quella tensione sono stati sciolti ed il merito incontestato va riconosciuto a Carlo Mauro, l’unico uomo politico galatinese che, negli anni precedenti il fascismo, e negli anni in cui il fascismo giunge al potere, ha capito la necessità di collegare la propaganda e l’agitazione all’azione immediata diretta a soddisfare le esigenze più urgenti delle masse attraverso un’instancabile attività per la creazione delle leghe di resistenza operaia (in particolare dei muratori) e contadina, per l’organizzazione di mutuo soccorso e delle cooperative.

Forse non si può dare un giudizio equanime sul ruolo di Carlo Mauro nel movimento operaio e contadino di Galatina e nel Salento, se non si comprende la funzione svolta dalla vecchia generazione socialista per creare il partito della classe operaia e per legarlo strettamente alla larghe masse di sfruttati, e se non si valutano esattamente i successi innegabili che si sono ottenuti. La morte nel giugno del 1946 impedisce a Carlo Mauro di risolvere il problema della sutura della vecchia generazione marxista con la nuova nel momento storico e nelle forme opportune. Per comprendere la gravità di questa mancata saldatura, il lettore si renda conto che l’uomo ha ereditato tutte le qualità della prima generazione del socialismo italiano, in primo luogo l’attaccamento alla classe operaia, dovuto non si saprebbe dire se più all’istinto o più alla riflessione. Queste qualità risaltano tanto più in quanto coesistono con uno spirito singolare che alla maggior parte è parso come spirito di avventura, ed in realtà è stato spirito di rivolta. Per questo Carlo Mauro nel 1921 a Livorno ha saputo staccarsi dal Partito socialista per unirsi alla nuova generazione marxista fondatrice del Partito comunista d’Italia.

C’è un problema che Carlo Mauro ha lasciato in eredità ai comunisti galatinesi, e che i vari gruppi dirigenti che lungo gli anni si sono succeduti alla testa del partito non hanno saputo o voluto risolvere. Esso consiste nel rapporto della sinistra con la piccola e media borghesia, tema questo tra i più ardui della storia del Mezzogiorno.

E’ certamente sempre difficile che uno spostamento della piccola e media borghesia possa avere conseguenze benefiche dirette per il proletariato. Tuttavia Carlo Mauro, pur senza riuscirvi, ha fatto questo tentativo, alleandosi nell’età giolittiana col gruppo repubblicano di Antonio e Vito Vallone, proprio al fine di tentare l’assorbimento e l’integrazione dei nuclei familiari medi e piccolo-borghesi rurali e cittadini. Se il legame tra piccoli e medi borghesi da una parte, e grossa borghesia dall’altra, si effettua principalmente sul piano della vita parlamentare, col risultato di aggregare tutte le frazioni borghesi, in realtà questa forma di compromesso politico tra gruppi dirigenti dei diversi partiti borghesi a Galatina non ha funzionato in virtù dello spirito democratico del gruppo dei Vallone, che a quel legame ha preferito il rapporto con il movimento contadino guidato da Carlo Mauro. Dal canto suo questi ha sempre vigilato per mantenere vivo ed attivo il blocco popolare. In tutto il Salento, ma certamente a Galatina, questo gruppo dirigente è l’unico gruppo borghese che oppone al fascismo una resistenza durata più a lungo rispetto a quella di altri gruppi di uguale orientamento, col risultato che a Galatina la borghesia cittadina giunge con ritardo all’unità politica marcata dalla reazione fascista. Quando prende corpo quella forma di aggregazione politica che va sotto il nome di fascisti di don Vito, prodotto ed epilogo male applicato del trasformismo giolittiano, una breccia si è aperta nel fronte della democrazia galatinese, e si è giunti così al crepuscolo della libertà politica, destinata di lì a poco a fare naufragio.

In questa trasformazione della politica valloniana a Galatina, coerente con l’evoluzione della politica nazionale, sono da rinvenire le ragioni del fallimento di Carlo Mauro – che rimane isolato – e di tutta la sinistra galatinese nel tentativo di assorbire e di aggregare i ceti medi.

Nel perseguire lo stesso fine non fallisce, invece, il fascismo, e ci riesce accarezzando i sentimenti anticapitalistici della piccola e media borghesia, ed infondendo in essa tenacissimi sentimenti antiproletari. Dell’odio contro il proletariato e della lotta contro il bolscevico la piccola e media borghesia galatinese ha fatto un mito, e questo mito, unitamente a quello della nazione e dell’assoluta devozione ai suoi interessi ed ideali, è stato sfruttato ad arte ogni volta che il pericolo di profonde modificazioni dell’opinione pubblica è diventato imminente. E’ così accaduto che a Galatina, a poco a poco, tra i membri del partito fascista, al dominio della piccola e media borghesia produttrice è succeduto quello della borghesia piccola non produttrice (funzionari dello Stato, fascisti di professione) e di conseguenza i quadri del partito si sono trasformati totalmente, ed in luogo delle vecchie camicie nere sono subentrati i rappresentanti immediati della grossa borghesia terriera o i loro fiduciari. Quando viene nominato dall’alto come podestà di Galatina Domenico Galluccio e dopo di lui Angelo Ancora, e nei quadri locali del partito si iscrivono i nomi del casato Bardoscia-Colona, il fascismo ha già assorbito nella nostra città, come in tutta Italia, quasi per intero lo stato maggiore di tutti i partiti della piccola e media borghesia, e si è già avviato a sopprimere la democrazia ed a sostituirla con un sistema di governo totalitario. Il partito, non più movimento ma regime, si è affermato definitivamente non soltanto come strumento di reazione e talora di repressione, ma anche come centro di unità politica di tutte le classi dirigenti locali rappresentative del capitale finanziario ed agrario. Ciò è accaduto perché, come in tutta Italia, anche a Galatina il piccolo e medio borghese non è stato ciò che ha creduto di essere. La sua ideologia è sempre stata subordinata al dominio che un’altra classe ha esercitato su di esso. Egli vive o crede di vivere una propria visione moralistica dell’esistenza, che vede il bene contrapporsi al male e la virtù, possesso privilegiato dell’umile, vincere sulle passioni e sulle tentazioni, ed in questa visione trascrive un conflitto di valori che può divenire strumento di controllo e mezzo di persuasione all’accettazione rassegnata per sé e per gli altri di una condizione di inferiorità. Sono le conseguenze forse della secolare tradizione di servitù sociale incorporata nel mondo rurale del nostro Sud dove son vissuti e vivono ancora i buoni sentimenti, ma la gente non si accorge che per essi in realtà vengono elusi i contrasti sociali.

[Memorie di Galatina. Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia, Mario Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 31-34.]

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