di Antonio Errico
“Credevo che non sarei mai arrivato in tempo”. “C’è ancora qualche minuto”. “Ho sentito la radio”. Anche per te ci sono novità”. “E’ una giornata di molte novità, per me e per te”. “Bene”. “E adesso?”. “Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova”. “E questa?”. “Questa è finita”. “ Finita finita?”. “Finita finita”. “La scriverà qualcuno?”. “Non so, penso di no. L’importante non era scriverla, l’importante era provarne un sentimento”.
Atlante occidentale di Daniele Del Giudice finisce con questo dialogo.
Daniele se n’è andato a settantadue anni. Viveva in una casa di cura a Venezia, assediato dall’Alzheimer.
Forse non ricordava più nulla di sé, nulla della sua vita.
Forse non ricordava di aver raccontato qualcosa, una volta. Oppure ricordava di aver raccontato qualcosa ma a quell’aver raccontato non dava nessuna importanza. Forse, se ricordava, dava un’inconscia importanza vitale ad una sensazione, un’emozione, una percezione, un trasalimento, un brivido. Dava un’inconscia importanza soltanto allo sfilacciato ricordo di un sentimento. Tutto il resto, tutte le pagine che aveva scritto, le sue storie, i suoi personaggi, si erano fatti infinitamente lontani. Era soltanto quella scaglia di inconsapevole memoria di vita vera che lo teneva in piedi.
Eppure, quel dialogo conclusivo di Atlante occidentale, oppure la pagina di un altro qualsiasi dei suoi romanzi, o una frase sola, o una parola sola, il più marginale personaggio al quale ha dato un’esistenza d’inchiostro, avranno più vita di quella che ha avuto il suo corpo.
Una beffa. Una lusinga. Una disperazione. Una consolazione. Una ricompensa. Forse ogni racconto che si fa, è tutto questo insieme: beffa lusinga disperazione consolazione ricompensa. Tutto questo insieme e altro ancora, molto altro ancora; a volte, spesso, indipendentemente dal rapporto che ciascuno ha con il proprio racconto.