Servizio militare

L’ultimo giorno prima del trasferimento, che ci avrebbe separati, io e un amico eravamo usciti dalla caserma al primo suono della campana e come al solito avevamo visitato diverse chiese, prima di arrivare sul lungomare. Era una sera degli inizi di marzo, piuttosto umida a causa del vento che veniva dal mare e sembrava sporcare tutte le cose. Avevamo appena finito di cenare in una nave-ristorante, dove spesso ci recavamo per mangiare qualcosa di alternativo al vitto della mensa, nel quale – si diceva – abbondasse il bromuro, messo ad arte per sopire i bollenti spiriti della gioventù; e giacché c’eravamo, incluso nel prezzo, potevamo usufruire della toilette, poiché ancora non eravamo riusciti ad abituarci ai bagni turchi della camerata. Passeggiavamo in una zona piuttosto buia del lungomare, su cui sboccavano stradine ingombre di auto parcheggiate. Si parlava della nostra destinazione: io sarei andato non molto lontano, a San Giorgio a Cremano, e lui a Lecce. Il mio amico era tutto contento perché lo avevano mandato a casa! Si parlava di queste cose, quando lui mi indicò una donna ferma sotto un pallido lampione all’angolo di una di quelle stradine; da lontano si vedeva che era in minigonna, con borsetta e sigaretta, e sembrava in attesa di qualcuno. “Perché non ci andiamo?” mi disse, e subito partì in avanscoperta. Confabulò per qualche secondo con la donna e poi tornò da me. Era cosa fatta! Seguimmo la magra silhouette che avanzava davanti a noi sui tacchi a spillo per una via piuttosto angusta e buia, dal selciato sconnesso, e poi per vicoli e angiporti sempre più intricati, da cui non facilmente sarei stato capace di tornare indietro; la seguimmo fino ad una stamberga al primo piano di uno stabile fatiscente e ancora puntellato con assi di ferro per gli effetti del terremoto di otto anni prima. Salimmo dietro di lei per una scala strettissima e scarsamente illuminata. All’amico chiesi che mi desse la precedenza. Lui mi fece l’occhiolino, il che significava che acconsentiva, perché comprendeva la mia esigenza di dare sfogo a una lunga astinenza; in realtà, fraintendeva il mio ragionamento: giacché m’ero cacciato in quella situazione e non avevo il coraggio di tornare indietro, avevo fretta di liberarmene quanto prima.

Mentre l’amico sedeva sul pianerottolo che fungeva da sala d’attesa, io seguii la donna dentro la stanza, in mezzo alla quale era appesa ad un filo una lampadina dalla luce fioca, che doveva servire probabilmente a creare l’atmosfera, poiché proiettava la sua luce sopra un materasso, che mi sembrò alquanto sporco. Fu allora che vidi in faccia la donna: era una vecchia rugosa di almeno sessant’anni portati male e mostrava più di un segno della decrepitezza incipiente: la carne flaccida e scura, le ossa dello sterno sporgenti, il seno cascante… Subito si scosciò sopra il materasso, aprendosi davanti a me come un fiore appassito, dicendomi: “Jamme, bello, jamme: facimme an pressa”. Dunque, aveva fretta anche lei e questo mi sollevò alquanto. Mi tirò a sé, dopo avermi sbottonato i pantaloni, dimenandosi, suppongo con l’intenzione di farmi eccitare, e passandosi la lingua sulle labbra increspate piene di grumi di rossetto; mentre io dovevo apparirle piuttosto rigido, come una pala di baccalà; e tanto si dimenava, che ad ogni movimento del suo corpo corrispondeva un sobbalzo del tavolaccio su cui era poggiato il materasso, e ad ogni sobbalzo un rumore battente talmente forte che una scossa di terremoto sarebbe passata inavvertita. Io ero brillo, ma ancora padrone di me: che ci facevo in quel posto? E subito a questa domanda si sovrappose l’altra decisiva: che cosa dovevo fare per liberarmi di quella donna? Le dissi: “Lasciamo stare” e contemporaneamente tirai fuori la somma di denaro che il mio amico aveva pattuito e gliela diedi. La donna prese i soldi e mi sorrise ironica: “Vattinne, uaglione!”. Così mi tirai su i calzoni e uscii fuori dalla stanza molto avvilito, ma anche con un vivo senso di liberazione, sul pianerottolo, dove il mio amico stava seduto sulla panca in attesa di darmi il cambio. Ero rimasto dentro non più di tre minuti. Lui ci rimase cinque o sei minuti e dopo si disse contento per come erano andate le cose, ma io ci credetti poco, e oggi ci credo ancor meno, se solo ripenso a come era brutta e laida quella donna su quel tavolaccio rumoroso!

La naia proseguì, come ho detto, alle falde del Vesuvio, a San Giorgio a Cremano, per altri dieci mesi, concludendosi del dicembre del 1988. Grandi amicizie, grandi rimpianti ad ogni congedo di un commilitone, eppure giorni trascorsi nel segno della dissipazione e dell’inutilità, nell’attesa che finisse presto quel tempo scandito dal suono della tromba e che potessimo riprendere le nostre consuete attività. Ma se qualcuno dovesse chiedermi come ho svolto il servizio militare, a che cosa mi è servito, quale senso per me abbia avuto, ecco, gli risponderei raccontandogli questa misera storia, che simboleggia e riassume bene il senso di quei giorni lontani.

[Una prima versione di questo scritto, ora rimaneggiato, è ne “Il Galatino” anno XLIX – n. 13 dell’8 luglio 2016, p. 4]

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