Ogni numero della «Pantera profumata» è articolato in una sezione di poesie inedite, un’auto-antologia che rispecchia il percorso dell’autore, e una libera riflessione sulla sua poetica, in versi e/o in prosa. E d’altronde il genere del prosimetro ben si lega con l’idea di rappresentare la poesia nel suo farsi, secondo il grande modello della Vita nova dantesca.
Si comincia dunque con De Signoribus, poeta fra i più stimati del panorama odierno, che nel corso della sua ormai lunga attività ha saputo rimodulare in termini originali e credibili lo sconcerto esistenziale dell’individuo e della società sul crinale inquieto degli anni Zero, oscillando fra storia privata e pubblica – spesso raccontata dal punto di vista dello spatriato, del déraciné – lavorando su un linguaggio antiretorico, in minore, che trova la sua cifra in versi apparentemente molto leggeri ma dal notevole peso specifico, coagulati in pseudo-ariette metastasiane, memori della lezione di alcuni maestri del recente passato come Giorgio Caproni, soprattutto, ma anche di Giovanni Giudici o del Montale tardo; tutti elementi che hanno portato un osservatore attento come Giorgio Agamben a definirlo «il più grande poeta civile della sua generazione».
Nel volume che inaugura la collana, Nel villaggio oscuro (Manni, 2023, disponibile in libreria dal 10 febbraio), De Signoribus, in linea con le ‘consegne’ di Prete, intraprende un corpo a corpo con la parola, un ragionamento raffinato, denso, attorno al linguaggio della (sua) poesia. Con un dettato bisbigliato e possente, il poeta oppone le sue «affrante ariette» alla «pratica narcisistica della parola», al degrado dei «nuovi linguaggi comunicativi (velocità e semplificazione)».
Un’operazione linguistica che è anche una questione di resistenza. Perché, se la poesia è presidio di civiltà, occorre allora «salvare la propria lingua dalla frantumazione e dal baratro. Stare sulla lingua come una ronda in difesa», scrive De Signoribus in una delle sette prose che nella prima sezione del libro, Intorno al pozzo, si alternano a una suite di altrettante poesie (e del resto il numero sette ha valore iconico nell’intera raccolta, a partire dal verso di gran lunga prevalente, il settenario).
Per raccontare il lavoro del poeta – o il suo mestiere, potremmo dire con il titolo di un vecchio libro di Ferdinando Camon, che si concentrava su un’idea laboratoriale di poesia non lontana da quella di Prete – De Signoribus propone l’immagine del viator,il cui cammino è rivolto alla ricerca della «giusta parola», cioè della parola pura, innocente perché non ancora (o appena) pronunciata: ed è appunto nel tempo sospeso e transitorio di quella pronuncia che si può percepire, solo per un istante, il dono o la grazia della poesia, «l’eco di una rinascita».
Secondo De Signoribus, il poeta-viator intraprende un «cammino solitario» che consiste, paradossalmente, nel «salire nel proprio profondo, più scavato e illuminato». Fino al limen dell’ineffabile; fino ad affondare lo sguardo in una luce accecante: «Il poema avrà fine quando la vista s’annera e il sentimento reclina, rotola verso l’inizio, verso il grembo materno. Senza la capacità di alzarsi».
Ma quello che conta è il cammino. Nel corso del quale De Signoribus rivendica di non aver mai chiuso gli occhi di fronte alle inquietudini e alle contraddizioni del suo tempo (e nel libro si parla anche di covid, della guerra in Ucraina, di disastri ambientali, delle disperate rotte dei migranti), perché «chi scrive poesie […] deve sempre esserci davanti ai mali umani», dev’essere vigile testimone del «miserabile teatro» che attraversa: «Durante il dì, egli osserva vivendoli / i minimi moti interiori e i cataclismi terrestri, / i popoli sotto le macerie, i bambini vestiti / di fango e di polvere, / gli uccelli e i pesci coperti di catrame e lordure, / la marea nera e l’anima sporca / del progresso planetare, / guerre che chiamano guerre […]».
Per il suo viaggio, il poeta ha preparato un bagaglio fatto di parole, che sono gli strumenti necessari per spostare «col proprio rinnovato e ricomposto linguaggio, la percezione del proprio tempo». De Signoribus adopera, e fa reagire fra loro, dialettalismi della sua terra d’origine, le Marche («brecco», «ciaffo», «sgargarella»), neologismi («gurguglia», «blablìo», «moncatura»), neoformazioni («gestilampi», «lungosilente»), in osmosi con cultismi e termini di uso comune. «Il bagaglio – scrive il poeta – deve essere sedimentato e vivo allo stesso tempo: dal “colto” al “volgare”, dal lessico unitario alla parlata popolare e domestica».
Sono questi, secondo De Signoribus, gli ingredienti che concorrono a «rielaborare una lingua che non sia consumabile immediatamente ma sia resistente come un ramo più che una foglia».
Dunque, una lingua poetica che resiste, malgrado tutto. E che ci permette di percepire più da vicino, ancora una volta, il profumo della pantera.
[“La Repubblica – Bari” del 10 febbraio 2023, pp. 10-11]