Quando Enza Pagliara si confronta con un canto, lo fa dopo averlo elaborato in relazione al suo pensiero, alla sua sensibilità, alla sua visione del mondo e dell’esistenza. Probabilmente è questa la condizione che poi definisce la connotazione del suo stile, la personalità artistica che contempera dolcezza e sicurezza d’espressione. C’è una relazione profonda tanto con l’origine quanto con le forme nelle quali quell’origine si è trasformata. Allora ogni suo canto è, prima di tutto, una relazione con il tempo, con la cifra del passato e del presente, con il suo tono e con il suo senso, ne sintetizza coerenze, incoerenze, contraddizioni, i ritmi, i simboli, le inflessioni.
Nel canto di Enza Pagliara c’è una componente d’istinto e una di riflessione che si integrano, si combinano, s’impastano fino a generare quella condizione di originalità assoluta, inconfondibile. Se dovessi rintracciare nel suo canto, anzi nel motivo o nel movente del suo canto, nei filamenti della sua radice, il nucleo da cui ha origine, il levito, l’essenza, ci troverei una tenerezza e una malinconia. Forse una malinconica tenerezza: per le cose che sono state e che non sono più, per le voci che si sono perse e che lei vuole stringere nella sua voce; una malinconica tenerezza per il volto di questa terra, per le sue sontuosità e le sue miserie, per la sua lingua antica, per le sue fiabe, i suoi racconti silenziosi.
Ogni canto di Enza Pagliara è una recherche du temps perdu, una madeleine proustiana che rigenera e rinnova il tempo di una cultura, la storia di una gente.