di Guglielmo Forges Davanzati
L’approvazione, in Consiglio dei ministri, con applausi, del progetto di autonomia differenziata costituisce il primo passaggio di un ridisegno istituzionale della ripartizione dei poteri sul territorio che vedrà la fine fra due anni, se non ci saranno intoppi. Il processo è iniziato con il negoziato con il Governo Gentiloni da parte di Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto nell’ottobre 2017, con referendum consultivi, in quelle Regioni, risultati vittoriosi. Dopo la bozza Calderoli, lo scorso 3 febbraio si è approvato un documento che rinvia all’attuazione del regionalismo differenziato, con la clausola di salvaguardia allargata (le singole intese non dovranno comportare costi addizionali per lo Stato). Si tratta di un disegno che scommette, sul piano macroeconomico, sull’accelerazione dell’Italia a doppia velocità, che però ben difficilmente potrà realizzarsi. Vi sono ottime ragioni, cioè, per ritenere il disegno governativo fallimentare. Vediamo perché. 1) Il trasferimento di poteri alle Regioni dovrebbe comportare, nelle intenzioni dei promotori, maggiori risorse in loco e, per conseguenza, maggiore produzione nei territori ora già più ricchi, con la previsione – nella nuova bozza del febbraio 2023 – della garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e di un fondo perequativo per il Mezzogiorno. Per la decisione del 3 febbraio scorso, i LEP saranno definiti attraverso un DPCM da una commissione tecnica con la Legge di Bilancio 2023, non dal Parlamento. I DPCM sono atti amministrativi impugnabili al TAR e non davanti alla Corte costituzionale. Il dispositivo individuato dal Governo si fonda sulla convinzione stando alla quale le regioni ora più ricche potranno ancor più agganciare le loro economie al traino tedesco.