Buzzati moriva nel gennaio del 1972 e una recente pubblicazione dal titolo “Buzzati. Album di vita tra immagini e parole” (Mondadori 2022) a cura di Lorenzo Viganò, ne ripercorre la vita e l’opera. Il volume, arricchito da un ampio apparato fotografico, è una finestra su Buzzati “giornalista del Corriere della Sera, Dino Buzzati narratore, pittore, scalatore, poeta, drammaturgo e uomo”. Considerato il “Kafka italiano”, nasce in provincia di Belluno nel 1906. A 22 anni entra come praticante al “Corriere della Sera” (“Al Corriere non mi terranno e la vita sarà per me un inferno”), e vi rimarrà per quarantatré anni. Per il Corriere sarà cronista, inviato di guerra, vicedirettore della “Domenica del Corriere” e critico d’arte. La sua produzione letteraria si nutre inevitabilmente della cronaca, che intride la sua vita e le sue giornate, ma quando il cronista diventa scrittore, la realtà sbiadisce per lasciare spazio all’onirico, al surreale, al tonfo di un pugno che batte su una porta mentre fuori la fine del mondo infuria. E così il primo romanzo è “Barnàbo delle montagne” (1933), poi “Il segreto del Bosco Vecchio” e il suo capolavoro “Il deserto dei Tartari”. E ancora i racconti (“I sessanta racconti” vincerà il Premio Strega nel 1958) e “La famosa invasione degli orsi in Sicilia”, fino a “Il grande ritratto”, romanzo visionario e fantascientifico, e, soprattutto, “Un amore”, dolce e doloroso come l’amore che narra. Nel volume curato da Viganò avventura biografica e letteraria dell’autore bellunese si compenetrano, quasi confondendosi. I pezzi di cronaca nera assomigliano a racconti dell’orrore: leggere la cronaca dell’eccidio di Via San Gregorio a Milano è scaraventarsi in un regno di tenebre, in un bosco oscuro di terrore e malvagità: “Una specie di demonio si aggira dunque per la città invisibile”, così viene descritta Rina Fort, come mostro demoniaco assetato di sangue, fino a immaginarla, poi, nella più prostrante forma di pietà, appena uscita di galera – in un futuro lontano – “sola, sopravvissuto e miserando rudere, guardando la gente che passa, e inutilmente cerca un volto conosciuto”. La spedizione come inviato ad Addis Abeba gli permette di conoscere un mondo militare che finirà per dissolversi nella rappresentazione di un’aristocrazia militare in decadenza, di un’attesa infinita in una fortezza ai limiti del deserto, in un tempo immobile quanto immobile è la distesa di sabbia sulla quale si staglia, mentre un giovane ufficiale tremante attende “un’ora di gloria che continua ad allontanarsi”, cercando di scorgere un invisibile nemico la cui assenza è opprimente più di un attacco. L’ossessione di Buzzati per la giovane S. F. diventerà quella del quarantanovenne Antonio Dorigo per “la Laide”, ragazzina squillo, ballerina della Scala, protagonista femminile del romanzo “Un amore”, contenitore letterario di un male d’amore personale che è un “marasma orrendo”, “un fuoco alla bocca dello stomaco”. Il giorno della morte dello scrittore, il “Corriere” dedicherà la prima pagina (“E’ morto Buzzati”) a colui che al “Corriere” aveva dedicato l’intera esistenza: “se n’è andato così alla Buzzati che alla Buzzati potrebbe anche tornare. E pure questo troveremmo del tutto naturale, come una delle sue tante magie, o l’ultimo gioco del suo umorismo nero. (…) Con Buzzati se ne va la voce del silenzio, se ne vanno le fate, le streghe, gli gnomi, i presagi, i fantasmi. Se ne va, dalla vita, il Mistero. E che ci resta?”. Resta, a poco più di cinquant’anni dalla morte, quello che Buzzati, in segreto, in cuor suo, aveva sognato e sperato di fare: “ho cercato, con la penna e poi anche con i pennelli, di raccontare delle storie. Se una sola di esse è riuscita, o riuscirà, a toccarvi il cuore, vuol dire che non ho lavorato inutilmente”.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 30 gennaio 2023]