di Antonio Errico
In questo nostro tempo di povertà spirituale, l’unico modo per tornare vivi è richiamare in servizio l’arte, la poesia, essenziale come il sangue nelle vene, per sfuggire a un’attualità bugiarda, a pensieri fasulli. Così dice Toni Servillo in un’ intervista a Maurizio Porro per il “Corriere della sera”. Ma in un tempo in cui la superficialità si fa condizione profonda, elemento di sostanza, teoria e prassi di esistenza, in un tempo in cui l’essenzialità coincide con il superfluo e la realtà reale con la realtà virtuale, l’arte non serve a niente. Non serve a niente Caravaggio e la sua luce che sembra quella stessa luce della Creazione. Non serve a niente Michelangelo e non servono le figure della sua Cappella Sistina. Non serve Vivaldi con le sue Quattro stagioni. Non serve Leopardi, Eliot, Virgilio. Non servono. A meno che non si pensi che quelle opere possano cambiare il pensiero di uno, di tanti: il loro modo di confrontarsi con la realtà e la sua rappresentazione, con la metafora e la sua proiezione, con il paesaggio e la sua trasformazione. Oppure: con il mutare dei nostri volti, dei nostri pensieri, con la nostra relazione con gli altri e con noi stessi. Oppure: con la nostra possibilità, con la nostra capacità di perforare la superficie delle cose per cercare di capire cosa c’è dietro, cosa c’è dentro, per tentare di scoprire quali sono i nuclei delle storie, i loro motivi essenziali, i significati più profondi. L’arte non serve a niente. A meno che non si pensi che possa costituire un rimedio all’indifferenza, al disinteresse per la bellezza, alla noncuranza per il necessario, per l’indispensabile.
A meno che non si pensi che l’arte possa contribuire all’emersione di una sensibilità interiore, quella sensibilità che consente di lasciarsi attrarre dai riflessi delle cose, di comprendere il linguaggio silenzioso, l’energia di una metafora.