Salvatore Toma, per esempio. E’ un grande poeta perché ci ha creduto. Credere significa anteporre il pensare e l’essere poeticamente a qualsiasi altra cosa. Anche alla vita. Totò Toma antepose: senza nessun dubbio, nessun ripensamento.
Ci ha creduto. Estremamente. Fino in fondo. Fino all’ultimo respiro. Fino all’ultima goccia di flebo che gli passò nelle vene in quel marzo nevoso, lì, giù giù, nell’ospedale di Gagliano. A Finibusterrae. Sono passati trentaquattro anni.
Scriveva: un grande poeta si riconosce soprattutto dalla paura che si fa.
Antonio Verri, per esempio. Faceva fogli di poesia che vendeva a cento lire per le strade di Lecce. Si ostinava a pensare che la poesia dovesse stare tra la gente, che dovesse sprofondare nella storia per poi riemergere e attraversare il presente, ogni giorno che chiariva e che scuriva. Pensava che la poesia potesse cambiare le cose che dovevano essere cambiate attraverso la bellezza e lo stupore, e tanti gli dicevano che era un illuso, e lui rispondeva provateci un po’ a vivere senza un’illusione per vedere l’effetto che fa.
Diceva che fare letteratura, fare poesia, significa che quando si fa il conto, come lo fa un uomo, di tutto quello che si è scritto rimangono soltanto lo stupore, le svuotate parole, i propositi di volo; rimane solo il gioco, la ripetizione, il bisticcio.
Diceva che fare poesia, fare letteratura, non possa essere altro che un correre stolto, e un correre continuo, verso il solito albero d’oro, verso il solito vecchio profumato eldorado.
Spesso ci si chiede a che cosa serve la letteratura, oppure se abbia ancora senso in un tempo di tracotanza, di superfluità, di mitologie sgretolate, di dei seppelliti, di utopie svaporate, di tecnologie prevaricanti, in un tempo arrogante, borioso, indifferente, sotto l’impero dei mercati, nel contrasto vergognoso di opulenze e di miserie. Ma forse è proprio in un tempo che si mostra con una fisonomia deformata che serve la letteratura, che serve una parola autentica e profonda, lontana da qualsiasi convenzionalismo, opportunismo, manierismo, artificio, accondiscendenza, autoreferenzialità, ambizione.
La letteratura (quella vera, perché esiste anche la letteratura falsa, l’esercizio formale senza alcun significato, il libro scritto per divertissement) è sempre stata un’esperienza di liberazione e di libertà. E’ questo che deve indispensabilmente continuare ad essere, provocando il pensiero, l’indignazione, la rabbia, conformandosi ai volti innumerevoli dell’Altro, ascoltandone le voci e i respiri, urlando contro le ingiustizie, le sofferenze, i qualunquismi, contro ogni sopruso, contro ogni ipocrita silenzio. Ma forse c’è una condizione che in questo tempo assume un’importanza straordinaria. Forse in questo tempo la letteratura è la possibilità che l’esistenza si concede per sottrarsi alla massificazione, al livellamento, al conformismo e all’uniformità, all’appiattimento, alla misura standard per tutto, per tutti, per riconquistare un’intimità di tempo e di spazio, per ritrovare un sentimento di appartenenza a se stessi.
Di Elena Ferrante non si sa niente.
Forse è una(o) che resiste al richiamo della mondanità e della gloria. Forse è uno(a) che ha già una sua presenza consolidata nella cosiddetta società letteraria e si gode lo spettacolo come spettatore. Ma sarebbe bello che fosse una donna di mezza età che dopo aver sistemato le faccende di casa, si mette a scrivere soltanto perché scrivere le piace, soltanto perché quando scrive si sente bene. Poi ritorna alle faccende di casa. Ma a pensarci: in fondo la letteratura non è altro che una faccenda di casa. Niente di più e niente di meno di una assai seria faccenda di casa.