Flannery O’Connor e i pavoni come “intrusioni della grazia”

(…) in quel periodo in un certo senso vivevo sia la mia vita che quella di H. Motes, e siccome la malattia mi colpiva le articolazioni, mi andavo convincendo che alla fine mi sarei trovata paralizzata e cieca e che nel libro avevo presagito il mio destino (p. 182).

Quando per Flannery gli amori non arrivano (“E per quanto riguarda l’altro aspetto sentimentale, l’amore, potrebbe continuare a illuminare la mia esistenza solo come prodotto della mia fantasia” – p. 317), quando il dolore la piega a metà, la spezza, la infrange, quando viene meno il coraggio di guardarsi allo specchio (“il più delle volte non sembro nemmeno io, o magari sembro come sarò un paio di giorni dopo la mia morte” – p. 361), la scrittura diventa salvezza. Vive in funzione e per mezzo della scrittura. Scrive racconti, diari, romanzi, lettere e così tesse rapporti, contatti, amicizie che dureranno fino alla morte, a 39 anni. Ma la scrittura non è la sola passione a tenerla in vita.

Io lavoro solo un paio d’ore al giorno perché è tutta l’energia che ho a disposizione, ma in quelle due ore non permetto a niente di interferire: stesso orario, stesso posto (p. 291).

Terminate quelle due ore giornaliere di scrittura intensa, Flannery abbandona la sua stanza e si dedica alla cura dei suoi pavoni. La passione per i volatili la accompagna da quando è solo una bambina, quando a sei anni riesce a insegnare a una gallina a camminare al contrario. Da allora si interessa a tutti i tipi di volatili, inizia ad allevare polli, prediligendo “quelli con un occhio verde e uno arancione, o con il collo troppo lungo e la cresta deforme” (p. 35). Fino a quando, un giorno, non decide di spendere 65 dollari in una coppia di pavoni. Quello che nasce come interesse di ricerca, si muta in passione e il numero dei pavoni cresce a dismisura: “Ne voglio così tanti da trovarmene uno fra i piedi tutte le volte che esco di casa” (p. 38). Quando, poi, le chiedono di scrivere un pezzo su rivista sui suoi pavoni, Flannery O’Connor scrive, dunque, un articolo dal titolo “Il re degli uccelli”, in cui la narrazione di questa passione e la dimostrazione dell’incredibile esperienza acquisita di questa tipologia di volatile fanno da fulcro. Il pavone, il re degli uccelli, è una creatura complessa e meravigliosa che non tutti sono in grado di apprezzare. Osserva come per molti sia un animale inutile, per altri un animale da intrattenimento, per via dello spettacolare uso che fa della coda. Alcuni vorrebbero che il volatile facesse la ruota a loro piacimento e quando, in seguito a petulanti insistenze, vengono ignorati dal pavone se ne vanno stizziti. Nella sua casa in campagna gremita di pavoni, Flannery li osserva e li cura come creature superiori. Superiori all’uomo anche per il solo fatto di essere animali, in quanto più vicini – come sosteneva sant’Ambrogio – al mistero di Dio perché, nell’ordine della Creazione, precedono gli uomini. Inoltre, i pavoni sono simbolo di Cristo, rappresentano l’immortalità dal momento che, secondo le credenze popolari e secondo sant’Agostino, la loro carne non andrebbe mai in putrefazione e sono simbolo di resurrezione, perché ogni anno rinnovano le piume. I pavoni, con il collo lungo, le estremità delle ali color argilla, gli artigli affilati, il petto blu e la coda immensa, colorata, cangiante dal bronzo al verde, sono “intrusioni della grazia” (p. 88) nella vita quotidiana. Chiusa nella sua cameretta, Flannery scrive di profeti fasulli seppelliti in una bara troppo piccola dalla quale spunta fuori una pancia grottescamente comica, di ladri di gambe di legno, di predicatori ciechi e bambini annegati. Scrive di loro e cerca, per loro e con loro, un manifestarsi della grazia divina nelle loro vite, una grazia che è come la scrittura, una forma di “autorinuncia”, che sale e scende come la marea, che può salvare le anime perdute nel “territorio del diavolo” (p. 90), nella terra infestata da Cristo, tra fanatici e greggi di uomini investiti dal male. Cammina insieme a loro, a Hazel Motes, a Enoch, a Francis, a Mason, a Parker, al Balordo e cerca di scovare barlumi di grazia nelle loro vite appestate da Cristi che, tra i boschi, si arrampicano di albero in albero per depositarsi in fondo alle loro menti, attirandoli nel buio, in un’oscurità senza fine. Quando, poi, finito di scrivere, raggiunge il cortile, allora è il suo turno di ricerca della grazia, che risiede nei colori di quei pavoni:

Negli ultimi tempi faccio un sogno ricorrente: ho cinque anni e sono un pavone. Un fotografo è stato inviato da New York e per l’occasione è stato apparecchiato un lungo tavolo. Sarà servito un pasto speciale: la sottoscritta. Urlo: “Aiuto! Aiuto!”, e mi sveglio. Poi dallo stagno, dal fienile e dagli alberi intorno alla casa sento che inizia quel coro giubilante:

Lii-ooo lii-ooo,
Mii-ooo mii-ooo!
Iii-i-ouu iii-i-ouu!
Iii-i-ouu iii-i-ouu! (p. 49).

Il coro giubilante dei pavoni la salva dall’incubo. È la grazia che, nel gorgogliare delle loro gole, nel roteare delle loro piume, si introduce nell’incubo per dissiparlo, nella sua vita per illuminarla. È la grazia che le rende il corpo leggero, di là dal dolore e dalla malattia. È la grazia che le dona il vigore della mente mentre le ossa le si disfano in brandelli. È la grazia che fa di quella stampelle non ingombranti gambe di alluminio ma ali, come quelle dei suoi pavoni, che la aiutano a librarsi, come creatura meravigliosa, nelle coscienze di chi la legge.

[Minima&moralia, 17 gennaio 2023]

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