Cominciamo, allora, dalla trama. Il protagonista è un americano, Joe Harrus, di Seattle, che fin da piccolo sogna di poter diventare un pilota d’aereo. Fattosi grande, sposato e con figli, realizza il suo sogno, ma un giorno ha la disavventura di precipitare sull’isola di Tofua, posta al centro dell’arcipelago di Tonga, nel Pacifico, un’isola inospitale e apparentemente deserta. Joe si salva insieme ad altre tre persone. Ben presto i quattro scopriranno di non essere soli sull’isola. Sull’altro versante, infatti, abitano degli indigeni, i Tohiea, che vivono in armonia tra loro e con la natura e senza contatto con la civiltà. Joe e i suoi compagni di avventura, grazie alle loro conoscenze di uomini civilizzati, aiutano in mille modi questa popolazione, ma introducono anche una sorta di disarmonia, soprattutto a causa della diffusione della moneta, che attizzerà la cupidigia o, per dirla con l’autore, l’amor proprio, a danno dell’amore comune. L’inaspettato ritrovamento di alcune imbarcazioni consente a Joe di mettersi in mare e di approdare su una terra civilizzata, da dove tornerà a casa. Sono passati quasi quattrordici anni, il padre è morto di cancro, i figli sono morti in un incidente stradale e la moglie si è rifatta una vita con un altro uomo. A Joe non resta che vendere le pietre preziose che aveva portato con sé e ritornare là da dove era venuto, con aiuti umanitari al seguito. Sull’isola trova una situazione da guerra civile, che riesce a sedare perché ha con sé dei fucili. Così conquista il potere e salva l’isola dalla speculazione edilizia. Continuerà legittimamente e illuminatamente a governare fino alla morte collocata nell’anno 2043 dell’era cristiana. Dimenticavo di dire che il titolo trae spunto dalla circostanza infantile nella quale una maga, credendo di ingannare il piccolo Joe, gli vende una scatola in cui il ragazzo pensa di aver depositato il suo grande sogno. A conclusione del romanzo, il novantaseienne Joe toglierà il sigillo alla scatola, e si scoprirà che il suo sogno non poteva che consistere in una viaggio verso il Settimo Cielo, dove regna il grande spirito di Ta’ aroa, una specie di Zeus degli indigeni con cui Joe è vissuto.
Fin qui la descrizione della trama, nelle sue linee essenziali, che inevitabilmente lascia fuori più di quanto riesca a contenere. Allo stesso modo, trascurerò tutti i personaggi minori del romanzo, per analizzare meglio il personaggio principale, che è il vero motore dell’azione narrativa.
Il personaggio protagonista, come si è capito, è Joe, un pilota americano dotato delle più alte idealità. Egli vorrebbe portare la civiltà in un luogo primitivo, ma una civiltà depurata da tutto ciò che di negativo essa porta con sé: l’attaccamento ai beni materiali, l’interesse particolare, l’amor proprio spinto fino alla negazione dell’amore comune, ecc. Insomma, alla base di ogni ragionamento di Joe vi è il pensiero utopico, di ascendenza campanelliana, e prima ancora platonica, come Nocera nota nella Prefazione, e infine, dico io, americana, della perfezione (ovvero della felicità) da realizzarsi in questo mondo. Questi è Joe, un americano alla ricerca della felicità per sé e per gli altri. E Duma si è premurato di fornire al lettore tutto l’armamentario ideologico che ha mosso la mano dello scrittore e che poi è alla base del sistema di pensiero del protagonista. Lo ha fatto nelle Considerazioni conclusive dell’autore (pp. 427-436), nelle quali questi, partendo da una serrata critica della società odierna, approda alla descrizione di un possibile mondo migliore. Egli auspica la formazione di “un’unica comunità mondiale”, guidata da uomini “caratterialmente forti, determinati, di ampie vedute”, in grado di risolvere i problemi da cui è attanagliato il mondo moderno: la crisi economica, la crisi demografica, la crisi dei valori, soprattutto dei giovani, che occorre educare all’amore comune, non certo all’amor proprio. E che questo progetto non sia soltanto di Duma, ma anche del protagonista Joe, ce lo dice lo stesso autore, in questo modo: “Questo grande e complesso progetto rappresenta una delle poche strade percorribili dall’umanità per venir fuori dal ginepraio in cui s’è cacciata, ma è anche l’insieme dei desideri che Joe Harrus ha depositato nella sua “scatola dei sogni”. Per quasi tutta la vita il pilota americano si è adoperato, riuscendoci, alla costruzione del “villaggio celeste” nella sperduta isola di Tofua nel Pacifico, grazie anche all’aiuto degli amici Tohiea, per loro natura predisposti all’amor comune” (p. 435).
La mia disposizione amicale, quella che mi induce a sentire nelle parole del romanzo la voce di Rino Duma, sembra trovare conferma, dunque, in questa dichiarazione d’autore, in cui egli si sovrappone al personaggio (bene ha fatto l’autore, allora, a posporla al testo narrativo, per non soverchiare il lettore indirizzandolo sin dall’inizio), si confonde con esso a tal punto da dar vita ad un unico attante narrativo: Joe Harrus è Rino Duma, a dispetto di ogni narrazione in terza persona. In questo desiderio di identificazione, che si inquadra all’interno d’un pensiero utopico antico, rivisitato in chiave moderna, in questo conato verso un mondo migliore, che trova espressione nell’oggettivazione letteraria delle proprie idee e in pensieri a lungo meditati, consiste l’arte narrativa di Rino Duma, che trasporta il lettore in luoghi ameni percorsi dal suo alter ego coi modi avventurosi dei personaggi salgariani. Sicché al recensore che abbia compiuto questo viaggio lontano in compagnia di Joe Harrus non dispiacerà affatto essere amico di Rino Duma, col quale ha compiuto più di una tranquilla passeggiata per le vie cittadine discutendo di un possibile quanto utopico mondo migliore, alla ricerca della felicità: pro bono hominis, s’intende.
[Alla ricerca della felicità (recensione a Rino Duma, La scatola dei sogni, Edipan, Galatina, 2008), “Il Galatino” di venerdì 16 gennaio 2009, p. 3; poi in “Il Paese Nuovo” di sabato 30 gennaio 2010, p. 7.]