di Antonio Prete
Distese di ulivi che dalla piana giungevano fino alla macchia, e qualche volta arrivavano fino alle scogliere, quasi a lambire le cale di rocce carsiche e di strisce sabbiose, diradandosi poi presso una torre saracena. Nei giorni di vento il fogliame smosso mandava lampi d’argento. Nel fitto di quel manto, spesso ondoso come il mare che lampeggiava da lontano, si intravedevano grandi tronchi nodosi e involti. Geometrie biancogrigie di muretti a secco delimitavano le grandi aree palpitanti di verdescuro nella luce dei meriggi estivi. Dal cuore delle foreste di ulivi risuonavano le corali monodie delle cicale.
Scomposto affollarsi di scheletri arborei. Tronchi bruciati. Rami spezzati penzolanti al vento. Alberi sfigurati, con chiome risecchite, accartocciate. Sagome svuotate del loro corpo, con membra spalancate nel vuoto: spenti resti di un cimitero vegetale. Selve infernali, abbandonate dagli uccelli e dalle cicale. Sulla terra, in mezzo al pietrame, traspaiono nell’ombra zolle aride: tappeti di erbacce secche sottratti a ogni possibile fioritura.
Due immagini dello stesso paesaggio: la campagna salentina prima e dopo il lavoro implacabile della Xylella. Due vedute – stridenti – della stessa terra.
La prima, custodita ormai nella memoria, la seconda, opera non solo del funesto batterio, ma anche dell’accumularsi di incurie e di politiche agricole non tempestive che hanno facilitato e per nulla arrestato l’azione distruttiva del batterio. Un’azione ostinata, metodica nella sua espansione.