Daria (parte seconda)

   Arrivati al ristorante Dora si ferma un attimo sulla soglia. Ha cambiato idea? Ha paura di incontrare conoscenti all’interno? Ma perché allora ha passeggiato tranquillamente con lui in centro? Ecco, no. Chiede che le venga permesso di pagare lei la cena. Dario rifiuta, ma poi accetta con un sorriso, un “va bene”.

   «Non mi è mai capitato di andare a lezione privata da un professore.»

   Se lei vuole in un certo senso invertire la situazione tra medico e paziente perché non le dovrebbe essere permesso? Dario deve dire di sì, accettare. È come se lei sentisse il bisogno di essere ascoltata, di esser corretta su una lezione male appresa.  

«È possibile avere un tavolo lontano dai diffusori di musica?» lei chiese al cameriere. «Se poi spegnete, per noi sarà anche meglio» aggiunse con un sorriso tirato.

   In sala c’era solo una coppia di ventenni sulle cui orecchie note da martello picchiavano direttamente. Furono guidati in una sala attigua più piccola dove i diffusori erano spenti. Quasi sicuramente sarebbero rimasti soli e tranquilli.

   Indicarono la preferenza vicino ad una finestra constatando subito che dava su una strada del passeggio. Erano in vetrina.

   Il cameriere pareva colpito dalla coppia. Chissà quei due quali parole avevano pronte. Tornato col menù volle assicurarsi che fossero a loro agio.

   «A volte è necessario un velo musicale per limitare l’interferenza dei discorsi tra gruppi di clienti.»

   Un velo o una lastra di piombo.

   Passò qualche minuto poi la musica fastidiosa fu sostituita con melodie diffuse a volume minimo.

   «Ci vieni spesso a mangiare qui?» chiese Dora.

   «Sì, altrimenti stasera non avrei fatto questa scelta.»

   Doveva intrattenere e far sorridere la donna che lo graziava di tanta compagnia e nello stesso tempo guardarsi dal tracciare ritratti di conoscenti felici o infelici, colti o ignoranti, ricchi o poveri, non invischiati in avventure di sesso, né di castità forzata. Star nel mezzo. Meglio raccontare di sé. Ma cosa. Davanti ad una ascoltatrice severa il suo passato sarebbe apparso di una piattezza desolante.

   Gli sovvenne un ricordo, un fatto avvenuto proprio in quel ristorante. Un amico e collega lo aveva invitato lì a cena dopo averlo incontrato casualmente in centro. Cominciarono a parlare di fatti di scuola, ma l’amico pian piano si incupiva e diventava muto. Cosa gli stava succedendo? Alla fine quello parlò e gli disse che si era accorto da un pezzo che lui se la intendeva con sua moglie. Bell’amico, il Dario! Però se la relazione era giunta a un punto di non ritorno, la sua donna gliela lasciava. Meglio tagliare definitivamente se non c’erano rimedi. Non la deludesse però abbandonandola e facendola soffrire anche perché lui non l’avrebbe riaccolta in casa.

   «Tra la signora e te chi era quello definitivamente partito di testa?» chiese Dora.

   «Lei e basta. Non mi ero mai accorto, non avevo mai sospettato nulla della sua follia. Così non credevo alle parole del collega affranto. Rispondevo con tale aria di stupore e sorpresa che lui si convinse della mia sincerità e della mia innocenza.»

  «Immagino il capovolgimento della situazione e l’umiliazione conseguente quando l’amico ha creduto alla tua correttezza.»

   «Mi dispiaceva che si fosse tradito per niente e quindi crollasse del tutto in quegli istanti.»

   «Tu intanto sarai stato felicemente sorpreso e avrai immaginato i tentativi di recupero del bene disponibile.»

   «Niente tentativi. La storia è finita in questo ristorante.»

   «Dove tu ci torni con la coscienza tranquilla.»

   «Perché no?»

   «Ma che prove aveva lui?»

   «Ci sapeva insieme a un paio di concerti da camera in un palazzo dei tanti e suntuosi che qui in città si aprono ai grandi eventi e una volta ci aveva visti seduti a bere un aperitivo sul Liston in Piazza Bra.»

   «Tutto qui?»

   «Beh, una sera a cena a casa loro e altre sere in pizzeria con amici.»

   «Davvero non avevi mai sospettato nulla?»

   «Diciamo che non mi aspettavo che lei facesse gran conto delle mie gentilezze.»

   «Delle tue attenzioni. Lei avrà insistito con domande mute ma tu non hai mai capito. Che bella occasione persa.»

   «Ti giuro che non ho neanche immaginato una qualche sua corrispondenza.»

   «Non era abbastanza avvenente?»

   «Di più, se è per quello.»

   «E questo di più glielo avevi riconosciuto almeno con lo sguardo?»

   «Di certo sì, senza intenzione.»

   «Sempre senza volontà, segnale inconscio, in virtù del quale lei, sfinita, si sarà concessa la pace dell’amore da lungi.»

   «Un suo diritto.»

   «Ma il marito aveva cominciato a osservarla fredda, irrequieta e ha sospettato di te.»

   «Sarà stato così.»

   «Quello che potrebbe succedere ad una tua studentessa. Non ti accorgi.»

   Si confondeva, perdeva consistenza il ricordo dell’intimità fisica alla quale era approdato nel primo pomeriggio. Si installava un senso di colpa. Avrebbe voluto abbracciare Dora, ma vestita così come gli si presentava.

   «Sei bravo ad appassionare i tuoi studenti. Ma non rischi che essi restino intrappolati nei sogni?»

   «Oltre che in letteratura devo ingegnarmi in filosofia, cioè mantenere uno sguardo quanto possibile lucido sul futuro.»

   «Sul loro futuro.»

   «Sul loro destino. Chi lavorerà per lo stato, in cooperazione ampia e chi in privato o in cooperazione ristretta, ma nell’auspicio che costruiscano una democrazia sociale.»

   Al sintetico concetto ottenne da Dora solo un lampeggio dello sguardo. Riprese.

   «Al centro di ogni discorso è il rapporto sociale tra intelligenza singola e intelligenza associata, dialettica tra genio dell’individuo ed educazione delle masse.»

   «Dialettica? Tu discepolo dei filosofi pallosissimi che mi hanno fatto studiare a scuola? La dialettica: tesi, antitesi, sintesi. Solo parole. La realtà è un monolito pesantissimo. La catena di montaggio di ieri e il lavoro precario di oggi. Dell’operaio ti abbisogna qualcosa e nient’altro. Se non ci si accorge di questo ti saluto progresso sociale.»

   «Certo, non è un valzer la realtà e non si trova salvezza su confini estremi: liberismo selvaggio, statalismo autoritario. Di qua i rassegnati ad uno stato completamente asservito al mercato, là i sognatori di un mondo senza proprietà privata. Capisco le difficoltà di uno stato regolatore e nel contempo concorrente nelle iniziative economiche. Ma è questa la strada della socialdemocrazia. Ti si può concedere in proprietà un bene del quale ti devi sentire personalmente responsabile.»

   «Devo fidarmi di un professore filosofo.»

   «Fidati. Le più civili conseguenze si vedrebbero nei rapporti uomo donna.»

   Qualcosa mutò nell’espressione di Dora.

   «Tu come statale sei garantito nel tuo lavoro. E lo sei tanto che potresti mantenere una moglie disoccupata mentre ti ingegni in filosofia. Io dai professori sono stata abbandonata a produrre diversamente.»

   «Io proprio come filosofo garantito penso che la ricchezza non nasca solo dal privato con un meccanismo nel quale successo e fallimento sono visti come eventi naturali. Contesto che un fallimento nell’impresa di stato sia solo risultato di incompetenza e latrocinio. Più la gente è scolarizzata, minore è il rischio di fallimenti individuali e collettivi. Compito del filosofo politico è pensare, suggerire compensazioni al fallimento privato senza però che il fallito pretenda di scaricare tutte le sue responsabilità sul bilancio pubblico.»

   «E come filosofo politico stai suggerendo compensazioni anche per me?»

   Lei parlava come in una situazione di congedo. Mario sentì rompersi il suo filo di discorso. Riprese come meglio poteva.

   «In una comunità bene ordinata se io non me la sento per un lavoro complesso scelgo un lavoro più semplice, ma che sia remunerato in modo dignitoso. In una società selvaggia posso finire con lo scegliere tra accettare come lavoratore un prezzo da fame o vendermi addirittura come sicario del boss mafioso.»

   «Come maschio delinquente, sì, a buon prezzo.»

   Dario si sentì trafitto da queste parole e dal loro tono. Come non avesse la capacità di proteggere quella donna a lui affidata. Si riaffacciò l’istinto di abbracciarla, così, vestita e adornata. Ma intanto esponeva il suo pensiero semplicemente come era abituato con i suoi studenti.

   «A furia di relegare allo stato solo l’ordinaria amministrazione, senza quindi un suo pesante concorso nelle attività produttive, il patrimonio scientifico che le generazioni precedenti ci hanno lasciato si va sempre più concentrando in poche mani nella forma di grandi sistemi tecnologici. In alcuni casi un solo magnate gestisce un bilancio uguale a quello di uno stato. Eppure sarebbe possibile ridurre l’orario di lavoro visto che si può essere sostituiti dalle macchine robotizzate. Saremmo più liberi tutti. Più si crea tempo libero, più l’individuo ha modo di autorealizzarsi. Forse si invertirebbe il perverso processo per cui da una parte si continuano a tagliare i posti di lavoro e dall’altra si rendono necessarie nuove occupazioni. Bisognerebbe innanzitutto cominciare con il mettere l’apparato strategico nelle mani dello stato.»

   Dora si mostrava affaticata a seguirlo. Premuta dai suoi pensieri.

   «Con un professore come te a uno studente si affaccia molto presto un dubbio. Il suo destino sarà dovuto più alla lezione di filosofia o ai giudizi che si trova su compiti e interrogazioni?»

   A Dario sbalordito occorse qualche secondo per capire la terribile domanda. Lei si era oscurata in volto.

   «Per la filosofia sì, sono personalmente responsabile. A stabilire il valore dell’impegno di uno studente non sono solo. Opera il consiglio di classe.»

   «Ah ecco. Valore economico. Ci pensavo. Spetta a un collettivo certificare quelli che saranno disponibili all’arricchimento dei pochi. Intanto se il tuo pensiero è di per sé valido per cambiare il mondo stai attento a non chiudere tragicamente da eroe. Voi intellettuali non vi potete fottere di meno per le batoste che noialtri lavoratori subiamo puntualmente. Come commissari del popolo vi sentite in ogni caso realizzati.»

   Sopravvennero minuti di silenzio. Il discorso era chiuso. Lui avrebbe potuto sbandare sulla sua adolescenza, su vecchi ricordi fermandosi a un tempo in cui i giochi del destino non erano ancora chiari, ma non gli veniva in mente nulla per rasserenare la donna che aveva mangiato il risotto forzatamente come non riuscisse a inghiottire. 

   All’improvviso Dora chiese scusa, si levò e uscì dalla sala portandosi la borsetta.

   Lui attese per quasi un quarto d’ora pensandola in bagno.

   Era arrivato il brasato di manzo che si raffreddava insieme ai contorni.

   Venne il cameriere con uno sguardo cattivo e di rimprovero.

   «La signora mi ha pregato di porgerle le sue scuse. Si è sentita male e ha chiamato un taxi.»

   Lo guardava come ad attendere una spiegazione. Un incontro di addio o il signore era uscito in qualche mascalzonata nel discorso con l’amica?

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