Mi piacerebbe indagare il senso profondo di queste parole, nelle quali il logos è associato all’infanzia dell’uomo, ovvero quell’età nella quale si è muti, secondo l’etimologia della parola latina infans, colui che non parla, l’infante appunto, che tuttavia nel suo mutismo custodisce una verità invisa al potente.
In un testo di Agamben presente in questa stessa rubrica, dal titolo A chi si rivolge la parola?, del 23 agosto 2022, lo scrittore ci dice che, a differenza del passato, oggi “poeti e filosofi parlano – se parlano – senza avere più in mente alcun possibile destinatario.”
“La parola deve ora fare i conti con un’assenza di destinatario non episodica, ma per così dire costitutiva. Essa è senza destinatario, cioè senza destino.”
La ragione di tutto questo è che il filosofo e il poeta, non solo, come nel passato, parlano ad un popolo assente, ma anche che oggi, a differenza del passato, essi hanno la certezza che il genere umano non è affatto eterno:
“Noi siamo la prima generazione nella modernità per la quale questa certezza è stata revocata in dubbio, per la quale anzi appare probabile che il genere umano – almeno quello che intendevamo con questo nome – potrebbe cessare di esistere.”
Dati questi presupposti, lo scrittore odierno è colui che scrive “in condizione di assoluta inappartenenza”:
“La parola diventa qui simile a una lettera che è stata respinta al mittente perché il destinatario è sconosciuto. E noi non possiamo respingerla, dobbiamo tenerla fra le mani, perché forse siamo noi stessi quel destinatario sconosciuto.”
La parola senza destinatario ovvero con un destinatario che si identifica con il mittente, una parola che in realtà è “un’esigenza”, al “di là di ogni necessità e di ogni possibilità”, azzera il logos adulto e lo restituisce alla sua fase aurorale, così permettendogli di riacquistare la sua verità. Citando César Vallejo, Agamben scrive:
“Il vero destinatario della poesia è colui che non è in grado di leggerla. Ma ciò significa anche che il libro, che è destinato a colui che non può leggerlo – l’analfabeta – è stato scritto con una mano che, in un certo senso, non sa scrivere, con una mano analfabeta. La poesia restituisce ogni scrittura all’illeggibile da cui proviene e verso cui si mantiene in viaggio.”
La poesia ha un destinatario poetico analfabeta e presuppone un poeta analfabeta. Pertanto, alla domanda “A chi si rivolge la poesia” è giusto che si dia la seguente risposta: “la poesia deve restare illeggibile, che non vi è propriamente un lettore della poesia.”
Come il Dio-bambino è muto così la poesia è illeggibile: due paradossi assimilabili l’uno all’altro. Infatti, il Dio infante citato in La verità e il nome di Dio, quel bambino che i potenti vorrebbero uccidere perché temono la sua potenza, sebbene, in quanto bambino, non conosca le lettere dell’alfabeto, è figura del poeta analfabeta e illeggibile, un essere anche lui imbelle e muto, eppure molto pericoloso, che il potere tiene ai margini riducendolo al silenzio, quando non tenti di ucciderlo. Il suo compito allora sarà quello di preservarsi nel suo analfabetismo e nella sua illeggibilità, sottraendosi alla violenza del potere, il che equivale a preservare la verità della parola avvenire.