Entro questo quadro, sommariamente tracciato, Graziosi ricostruisce le singole tappe di un cammino che ha portato agli ultimi esiti, tappe di processi storici di cui i singoli personaggi sono nello stesso tempo espressione e attori.
Naturalmente, nonostante la programmatica ‘oggettività’ dello storico, il punto di vista di Graziosi è evidente e coincide con quello dell’osservatore ‘occidentale’, che considera le forme di vita dell’Occidente il metro di giudizio della convivenza umana, sicché tutte le manifestazioni della vita politica, economica e sociali della Russia, a partire almeno da 1991, pur segnando in alcuni casi dei miglioramenti rispetto alla Russia sovietica, sono considerate insufficienti e inadeguate. Anche l’opera di Putin, che pure ha conseguito risultati positivi dopo la crisi dei primi anni ’90, restituendo alla Russia l’autorità dello stato e distribuendo alla popolazione i primi segni di benessere con i proventi della vendita delle abbondanti materie prime, alla luce degli sviluppi successivi della sua politica è giudicata negativamente.
Infatti, nel saggio di Graziosi (ed è un ulteriore titolo di merito), oltre alla ricostruzione degli specifici rapporti tra Russia e Ucraina, vi sono, specialmente nella seconda parte, capitoli interessantissimi che riguardano la continuità tra Russia zarista, Unione sovietica e Russia attuale. Continuità inevitabile, se consideriamo le dinamiche consuete della storia, come dimostra (sempre nelle parole di Graziosi) “la lezione dell’esperienza italiana, in cui le credenze e i comportamenti radicati nel fascismo hanno continuato a esercitare una notevole influenza Cinquanta e Sessanta grazie a funzionari statali educati negli anni Venti e Trenta” (p. 139). Eppure lo stesso fenomeno, in Russia, alla luce del pregiudizio sopra evidenziato, viene valutato negativamente in quanto destinato a ostacolare il raggiungimento di una ‘modernità’, giudicata sempre rispetto al modello ‘occidentale’. Forse sarebbe auspicabile, anche da parte di storici di professione, l’adozione di una prospettiva più ‘relativa’, che giudichi i fatti per quello che sono e non in rapporto a modelli predeterminati.
Tuttavia la documentazione addotta da Graziosi consente di discutere anche posizioni meno condivisibili da lui assunte. Ed è quello che vogliamo fare in questa sede, discutendo due argomenti che Graziosi tocca en passant, ma che, a nostro parere, costituiscono due punti nodali per il giudizio che si può dare sugli ultimi sviluppi del contrasto tra Russia e Ucraina, che ha portato alla guerra.
La prima è lo scarso rilievo che Graziosi dà al “presunto mancato rispetto delle promesse fatte di non allargare la NATO a oriente come motivo che ha costretto Mosca ad agire” (p. XIV). L’aggettivo “presunto” è indizio dell’atteggiamento mentale con cui il problema è affrontato. Esso però contrasta con le motivazioni addotte da Putin per l’“operazione militare speciale” nel suo discorso del 24 febbraio. In esso si parlava (con le parole dello stesso Graziosi) della “necessità di una «legittima difesa» preventiva contro una NATO che prepara il colpo alla Russia; della necessità di prevenire il «genocidio» del Russi del Donbas, un genocidio presentato come effettivamente in corso; e del bisogno di «denazificare» l’Ucraina prima che sia troppo tardi, e l’Occidente riesca nel suo intento di rinsaldare un’anti-Russia da usare contro Mosca” (p. 84). Lasciando da parte le due ultime motivazioni, che hanno una coloritura più accentuatamente ideologica, il richiamo alla inadempienza della NATO ha un suo effettivo fondamento. È vero, come rileva Graziosi, che “nel 1990 non ci fu alcuna «promessa» formale, e men che meno alcun testo, che impegnasse la NATO a non allargarsi” (p. 84), ma è noto che nel 1990 tale impegno fu dato verbalmente (potremmo dire confidenzialmente) da Bush padre a Gorbaciov e che proprio la richiesta di un impegno ‘scritto’ è stato il leit-motiv delle dichiarazioni di Lavrov nei mesi immediatamente precedenti l‘invasione. Richiesta sistematicamente ignorata dalla NATO e dall’Europa. E tale richiesta non riguardava l’allargamento in genere della NATO, ma in particolare quello in Ucraina, dal momento che “nel maggio 1997…Mosca accettava l’espansione dell’Alleanza atlantica (Ungheria, Polonia e Repubblica ceca furono allora inviate ad entrarvi)” in cambio della rinuncia di quest’ultima a dispiegare permanentemente «forze di combattimento significative» e armi nucleari in Europa orientale” (p. 85) e che “nel 2002…NATO e Russia costituirono un consiglio consultivo congiunto sviluppando ulteriormente la Partnership for Peace e ponendo le basi per l’ingresso nell’alleanza di Romania, Bulgaria, Slovacchia, Slovenia e paesi baltici” (p. 96). Sicché si può dire che è stata la previsione dell’adesione dell’Ucraina alla NATO a far precipitare la situazione, dal momento che l’Ucraina, per ragioni sia storiche che geografiche, è più ‘vicina’ alla Russia degli altri paesi dell’Europa orientale.
È vero, come rileva Graziosi, che “il 5 dicembre 1994 Mosca firmò con gli Stati Uniti, Regno Unito e Ucraina un impegno formale e solenne a non violare, e anzi a garantire, i confini di quest’ultima in cambio della sua adesione al trattato di non proliferazione e della….cessione delle armi nucleari ucraine alla Russia” (p. XIV), ma bisogna osservare che nel 2014 la possibile adesione dell’Ucraina ha modificato sostanzialmente questo quadro e, d’altra parte, nemmeno l’Alleanza Atlantica ha puntualmente rispettato l’impegno assunto nel 1997 (e sopra ricordato) a non “dispiegare permanentemente «forze di combattimento significative» e armi nucleari in Europa orientale”.
Col senno di poi si può dire che nel 2022 un diverso atteggiamento della NATO e dell’Europa nei confronti delle esigenze della Russia avrebbe potuto portare ad un diverso esito degli eventi.
Il secondo argomento che si vuole discutere è quello relativo all’atteggiamento dell’Occidente nei confronti della Russia subito dopo il 1991. A questo proposito Graziosi scrive:
“la subitanea realizzazione che la Russia era molto più povera dell’Occidente si accompagnò presto, anche in parte delle élite russe, a «un profondo rancore nei confronti di un Occidente che non faceva nulla per aiutare».
Il discorso resta però falso e sbagliato: la Germania di Versailles, sottoposta a vessatorie riparazioni economiche, tagli territoriali, rigidi controlli sulle forze armate e umiliazioni di ogni tipo, nonché esclusa dalle organizzazioni internazionali, aveva reali ragioni di sentirsi vittima di politiche persecutorie, che non furono affatto applicate a una Mosca che scelse liberamente, a Belaveža, di sciogliere l’URSS, la cui esistenza Washington cercò di sostenere finché fu possibile…Diversamente dalla Germania, alla Russia non fu imposta nessuna riparazione (le furono concessi aiuti consistenti, anche se non nella misura sperata) e non fu tolto nessun territorio” (p. 58).
Prescindendo dal sostegno di Washington alla sopravvivenza dell’URSS (della cui sincerità è lecito dubitare), stupisce nel contesto l’adozione del paragone con la Germania del dopo-Versailles, che rischia di far passare la mancata irrogazione di ‘sanzioni’ alla Russia come una benevola concessione dell’Occidente. Ma quale giustificazione esse avrebbero potuto avere, dal momento che la Russia non aveva perso nessuna guerra e lo scioglimento dell’URSS era stato concordato dagli stessi stati membri ed era stato ispirato, come lo stesso Graziosi riconosce (p. 6), alla “comunanza ideologica (tra le repubbliche post-sovietiche) ed alla forza dell’«umanesimo sovietico», simbolizzato dal generale rifiuto dell’uso della violenza”? Si può rilevare solo che questo scioglimento lasciò insoluto un problema foriero di ulteriori tensioni, quello di “confini amministrativi trasformati di colpo nel 1991 in confini politici” (p. XI).
Ma queste considerazioni fanno orma parte della preistoria. Attualmente (dicembre 2022) la guerra ha assunto forme particolarmente crudeli ed inumane causando la sofferenza di molti civili e i morti cadono abbondantemente da entrambe le parti (100.000 quelli russi, non quantificati quelli ucraini).
Inoltre, dopo gli sviluppi segnalati all’inizio, la guerra si è trasformata in una lotta per un nuovo ordine internazionale. A questo proposito osserva Graziosi:
“Come ha scritto Fëdor Luk’janov, presidente dal 2012 del Consiglio per la politica estera e di difesa della Russia ed esponente di rilievo del blocco putiniano, il febbraio 2022 ha segnato per questo blocco «la fine di un esperimento storico su larga scala, il cui scopo era testare la seguente ipotesi. È possibile includere la Russia nell’ordine internazionale, creato senza la sua partecipazione dalle principali potenze occidentali, riservando un certo spazio per il suo sviluppo all’interno delle regole stabilite dai leader di questo ordine? Il risultato è negativo»” (p. 81).
È difficile dire se questo risultato si confermerà anche alla fine della guerra e si vedrà consolidato l’attuale ordine internazionale che vede al centro gli Stati Uniti, con la sua potenza economica e soprattutto militare, sostenuto in Europa dalla NATO e nel settore Indo-Pacifico dal QUAD, il “dialogo quadrilaterale di sicurezza” con Australia, Giappone e India, e dall’AUKUS, il “patto di sicurezza trilaterale” con il Regno Unito e l’Australia. La prima in funzione anti-Russia, le seconde in funzione anti-Cina.
Come si dice, chi vivrà vedrà.