La lingua “de lu tata”: l’Ottocento dialettale salentino

Ciò significa che questo particolare tipo di poesia è strettamente collegato alla realtà storico-sociale in cui nasce, non solo perché esiste, come osserva giustamente il curatore a proposito di D’Amelio, “una consonanza non effimera tra l’autore e la sua società” (p. 27), ma anche perché i destinatari di questa poesia arrivano in un certo senso a determinare forme e modi di essa. Il problema della ricezione insomma è fondamentale, mi sembra, per poter capire fino in fondo le scelte espressive e tematiche operate dai vari poeti, che non si possono spiegare soltanto con ragioni d’ordine esclusivamente formale. D’altra parte, non bisogna dimenticare che nell’Ottocento ildialetto era ancora la ‘lingua della realtà’, parlata dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, soprattutto nel Sud.

Da qui, ad esempio, la scelta del vernacolo rispetto alla lingua da parte del galatonese Giuseppe Susanna, il quale sapeva bene che i suoi lettori (ma, forse, sarebbe meglio dire ascoltatori) erano “quasi tutti contadini”, e che solo in questo modo quindi essi potevano recepire il suo messaggio di rivendicazione sociale e prendere coscienza della loro condizione: “Per rendermi più adatto all’intelligenza dei miei lettori, quasi tutti contadini, — chiariva infatti nell’Avvertenza alla seconda edizione dei suoi Scritti in dialetto galatonese (1920) — spesso le scrivevo in dialetto: ‘chi sa!?’ dicevo tra me. ‘A volte un nonnulla sbocca sulla via di Damasco” (p. 366).

E così si spiegano anche le tematiche religiose privilegiate dal gruppo dei poeti-sacerdoti (anzi “prieviti”) di Ostuni-Brindisi, i quali probabilmente erano consapevoli delle difficoltà incontrate dai loro parrocchiani a comprendere fino in fondo le prediche in una lingua ad essi sostanzialmente ‘estranea’, quale era l’italiano, o a seguire le funzioni liturgiche in latino. Non a caso uno di loro, Lotesoriere, nella poesia Quesito, fa una pungente parodia del teologo che si esprime in un incomprensibile latino: “Brave! cumpà teoluche! Distingue, nego, affirme: / cu chisse latinissime / na sacce ce vuè dirme!” (p. 476; “Bravo compare teologo! ‘Distinguo, nego, affermo’: con questi latinismi non so cosa voglia dirmi”).

D’altra parte, anche D’Amelio, nella Dedeca alle sue Puesei, aveva opposto programmaticamente il dialetto leccese al latino, che dichiarava anzi di non conoscere affatto: “Stu lenguaggiu cussì finu, / duca miu, ieu nu lu sacciu”. (p. 39; “Questo linguaggio così raffinato, duca mio, io non lo conosco”).

La specifica destinazione serve anche a rendersi conto degli altri temi di queste composizioni. A prevalere infatti è una tematica municipalistica, che fa riferimento a vicende e personaggi ben conosciutidai fruitori, con i quali perciò non si interrompe mai il circuito comunicativo. E anche i particolari canali di diffusione (fogli volanti, giornali locali, manoscritti, oltre che volumi) e la funzione svolta spesso da questi testi (recita, canto, lettura, poesia da musicare) stanno a confermare la volontà di comunicazione diretta con un preciso pubblico.

Per passare ora ai singoli poeti, non c’è dubbio che i più rappresentativi del gruppo siano proprio D’Amelio e Lotesoriere. D’Amelio, con la raccolta Puesei a lingua leccese (1832), ha dato per primo dignità di lingua letteraria al dialetto leccese, la lingua “de lu tata” (“paterna”), considerata, alla pari di tutte le altre, “mbasciatrice […] de la mente” (p.39; “ambasciatrice della mente”). Nelle sue composizioni, secondo Valli, “è inutile cercare grandi idealità civili e patriottiche […] così come è vano cercare valori di tipo universalistico e assoluto” (p.28). Egli piuttosto preferisce trattare temi municipalistici o sacri o storici o d’occasione, ma entro questi limiti raggiunge a volte esiti memorabili.

Si vedano, ad esempio, i sonetti d’argomento romano, basati quasi sempre sull’icasticità del gesto o della battuta finali, come quello intitolato La morte de Lucrezia rumana, che termina col gesto del marito di Lucrezia, violentata e poi suicidatasi, cioè di Collatino, il quale si tocca le corna spuntategli improvvisamente sulla fronte: “mentre rattàase a frunte, lu puarieddu / nu cuernu se tuccàu ci n’ia spuntatu” (p. 58; “mentre si grattava in fronte, il poverino si toccò un corno che gli era spuntato”). E notevoli ancora sono certi componimenti satirici, come A n’amicu pe nu caddu ci n’ia muertu de sùbetu (“A un amico per un cavallo che gli era morto all’improvviso”) e A nu giòane ci aìa demmazzutu pe l’amore (“A un giovane che era dimagrito per l’amore”), ricchi di colorite espressioni, a volte irresistibilmente comiche. Nel primo, un veterinario esegue l’autopsia su un cavallo morto improvvisamente “butandu lu fìcatu e le ntrame” (p. 59), cioè “rivoltando il fegato e le budella”, mentre nel secondo un giovane dimagrito per amore viene paragonato a un’”asca seccata” (p. 71), vale a dire a una “scheggia di legno secco”.

Ma se il poeta leccese era già abbastanza noto, una vera e propria scoperta rappresenta il canonico ostunese Lotesoriere, che si rivela un vivace sperimentatore del linguaggio poetico ad onta del suo conservatorismo ideologico. E scorrendo le pagine a lui dedicate, ci si imbatte in alcune piccole ma autentiche ‘perle’, come le quattro esilaranti poesie sulle pulci (“li pudice”), nelle quali l’autore prende di mira le teorie darwiniane sull’origine della specie, o come quella intitolata Le tre biatielle. In questa composizione, che per il tema e certo gusto dissacrante fa venire alla mente la celeberrima Le beghine di Palazzeschi, vengono messe alla berlina appunto le tre bizzoche del titolo che discutono continuamente é accanitamente, fino a darsele di santa ragione, sempre dello stesso problema, cioè di quale sia il migliore fra i loro padri spirituali: “E ce vone vigne vigne, / e ce tornene da Messa, / cusse sempe ì lu lucigne, / la canzone ì sempre chessa: / Patre tua e Patre mie, / ce si tu, e ce so ie” (p.455; “Sia che vadano gironzolando per le vigne, sia che ritornino dalla Messa, sempre questo è l’argomento, la canzone sempre questa: il padre tuo e il padre mio, chi sei tu e chi sono io”).

Accanto a questi, meritano però di essere ricordate altre singolari figure presenti nel libro: il Susanna, prototipo di scrittore impegnato sul piano politico e sociale; il leccese Marangi, che in alcune composizioni, come in Mise de sule (“Tramonto”), arriva a una musicalità di stampo digiacomiano: “Lu sule chianu chianu / se bbascia subbra a mare; / tuttu a nturnu scumpare. / Se sente de luntanu / quarche barca passare” (p. 158; “Il sole lentamente si abbassa sul mare; tutto intorno scompare. Si sente da lontano qualche barca passare”) e il gallipolino Marzo, che nel suo poema De Gaḍḍipuli a Marte, pubblicato nel 1903 con gustose illustrazioni, si fa divulgatore delle più recenti scoperte nel campo dell’astronomia, della fisica e della tecnologia, in linea con il clima di acceso entusiasmo per il progresso, tipico dei primi anni del Novecento.

[«L’immaginazione», a. XVII, n. 167, aprile 2000, pp. 25-27: poi in A. L. Giannone, Le scritture del testo, Lecce, Milella, 2004]

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3 risposte a La lingua “de lu tata”: l’Ottocento dialettale salentino

  1. Laura scrive:

    Ho insegnato per 40 anni, materie letterarie ma forte è la mia passione per il dialetto leccese.
    Ho trovato stupenda “La lingua te lu tata” ma, a parte il fatto che vorrei conoscere l’intero testo, mi piacerebbe anche sapere chi è l’autore: Francesco D’Amelio o Giuseppe de Dominicis?
    Fiduciosa di una risposta, cordialmente saluto

  2. wp_2601243 scrive:

    L’autore è Francesco D’Amelio.

  3. Laura scrive:

    Non riesco a trovare il testo de: La lingua te lu tata
    Ci terrei tanto a leggere per intero la poesia.

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