di Antonio Errico
Da qualche giorno è cominciato un anno nuovo. Ma il passaggio da un anno ad un altro è soltanto un pensiero rapidissimo, una percezione leggera, una delle innumerevoli espressioni di quel sentimento che avvertiamo ogni volta che ci confrontiamo con il tempo che ci viene dato in prestito, con il divenire dei giorni, il passaggio delle stagioni. L’anno vecchio e l’anno nuovo sono solamente figure di consapevoli convenzioni, perché appartengono allo stesso caos straordinariamente ordinato del tempo, allo stesso corso regolare del suo fiume. Così le storie che si devono concludere, si concluderanno; quelle che devono continuare continueranno; neanche faremo caso alla circostanza che continuano o si concludono in un anno diverso da quello in cui sono cominciate, perché le storie hanno un loro tempo, che non coincide con gli anni, ma con il nostro viverle, con il loro stesso maturare.
Comincia un anno nuovo e cambiamo le nostre agende, i nostri calendari, fingendo di credere che il tempo si possa misurare, che addirittura si possa governare. Concediamo a noi stessi l’illusione di poterlo scandire in fasi, impegni, scadenze, adempimenti, obiettivi, di poter organizzare il nostro fare, pensare, uscire, andare a dormire, arrivare da qualche parte entro una cert’ora precisa, tornare entro un’altra ora, precisa, colmare una distanza in tanti minuti, tanti giorni. In fondo ci proviamo, facendoci assalire dall’ossessione di non perdere tempo, di prendere tempo, risparmiare, sprecare, sfruttare il tempo, quando il tempo si dovrebbe soltanto adorare.
Forse di tanto in tanto si dovrebbero ripensare quei versi di Jorge Luis Borges che dicono così: “ Vedere nel giorno o nell’anno un simbolo/ dei giorni dell’uomo e dei suoi anni,/ convertire l’oltraggio degli anni/in una musica , un rumore o un simbolo”.