Animali identitari: il “bestiario salentino” di Vittorio Bodini e Fernando Manno (Parte seconda)

vi sono altre pagine in cui egli coniuga perfettamente i favolosi tesoretti medievali col più moderno saggismo. Così come quan­do si fa un Emilio Cecchi paesano e nostro nel bellissimo bestia­rio, la fauna del cuore…: si vedano L’orbettino, La secàra, Il millepiedi, La capra, Le cicale, La tarantola, Lu pupiddhru. Sono pagine indimenticabili in un’ideale antologia salentina: i nostri Pesci rossi. Pagine estrose e ferme nel dominio della parola, che imprigiona nelle spirali di una chiocciola o nel guizzo d’una tarantola a picco sul suo filo la lama dell’orizzonte o il dorso grigio e vecchio delle pietre, o scende nel cuore degli uomini oscuri di questa terra a stanarne antichi grumi psicologici che non saprebbero parlare di sé se non attraverso remote o magari perdute filologie[3].

Nella premessa della Fauna del cuore, Manno mette in rilievo lo stretto legame esistente tra questi animali, «figli della geografia e della storia del Tallone, né più né meno degli abitanti», e il territorio:

E noi abbiamo i nostri animali puri. O meglio, la nostra terra sub specie animale. Esemplari esclusivi o assimilati alla terra, ai padroni, agli usi, alla flora, ai volumi, al sentimento. Figli della geografia e della storia del Tallone, né più né meno degli abitanti.

In un diorama del Salento, come quelli contro sole dei pliants turistici, dovremmo avvicendare ulivi, lucerte fracetane, mandorli, ghirigori barocchi, capre, aranci, lumache, cavalli patiti, cicale, icone, muli pensosi e tristi[4].

Anche per questo sottolinea la distanza enorme che separa gli animali tipici del Salento da quelli della tradizione letteraria o favolistica, da Fedro a La Fontaine:

Non potrebbero, per esempio, le nostre bestie, partecipare alla favolistica convenzionale degli animali parlanti, per il nostro, e loro, fondo anarcoide. Fanno parte d’un’altra esperienza. Hanno un’altra Kultur. Dal 1870 fanno parte della Questione Meridionale. Possono essere preistorici, messapici, normanni, spagnoli (quante cose non sono, ad ogni discorso, spagnole, da noi?), borbonici, ma che cosa hanno da spartire con gli schemi accademici e francesi della morale d’un La Fontaine? O con quella ufficiale, borghese, consuetudinaria di Fedro? Un agnello pugliese non conosce i fiumi. S’abbevera nella pila e non potrebbe incontrare il lupo. Né da noi ci son lupi. E se ci fossero non sarebbero così dotti in Diritto Privato. Lo violerebbero e basta. Né le non numerose volpi nostrane stanno ad appetire uva di pergole. Ne avrebbero a disposizione a portata di muso fra i vigneti bassi, così caratteristici e particolari da far mutare dal paesaggio un tipo d’allevamento della vite: ad alberello pugliese.

Ma le nostre volpi non sono vegetariane come quelle di Fedro: sbranano le galline[5].

Successivamente, proprio come in un singolare bestiario novecentesco[6], procede all’inventario di quattordici specie animali aggiungendo alla fine quello che chiama «il firmamento fossile», cioè i residui (conchiglie, denti di squalo) che affiorano nella pietra locale e che dimostrano  come il Salento in un’epoca remotissima fosse sommerso dalle acque. Sono tutte specie da tempo immemorabile strettamente legate al territorio e con un’interazione particolare con i suoi abitanti, spesso entrate a far parte anche di leggende, credenze popolari, modi di dire e espressioni proverbiali.

L’orbettino, ad esempio, un innocuo serpentello che in primavera, fatta la pelle nuova, si libera della vecchia, abbandonandola nelle sterpaglie, diventa proverbiale nel Salento dove proprio per questo è sinonimo di disordine, ma anche di agilità giovanile: «Sia ca è nu scursune, sembra un orbettino: è paragone dell’agilità dei ragazzi che sgusciano ratti fra gente, ostacoli, veicoli»[7]. Una biscia, che ispira «viscido ribrezzo»[8] e si nasconde nelle fascine portate dalle campagne, dà vita a una vera e propria leggenda, quella della “secàra” che di notte succhia il latte delle puerpere nel sonno mentre i lattanti che ne sono privati diventano sempre più macilenti. È la stessa leggenda narrata da Bodini nel brano citato della prosa I bevitori d’aranciata, ma da lui attribuita all’orbettino.

Anche il geco, «un piccolo coccodrilletto in miniatura», che entra nelle case e resta immobile sotto la volta delle stanze, è un animale tipico della Terra d’Otranto, che viene così descritto da Manno:

È rettile acrobata. Immobile per giornate intere sotto la volta delle stanze, spesso a perpendicolo giusto giusto sul guanciale dove posi il capo per dormire, temi che ti possa cadere addosso come un’apocalisse di ribrezzo[9].

Il geco entra invece nelle credenze popolari come animale che porta fortuna e non deve essere ucciso perché sarebbe di malaugurio:

Lo porta fuori la tarda primavera e ha la sua stagione felice nell’estate. Ecco allora da chissà quali covi come quelle forze ctonie che le mitologie rappresentavano in strani animali e divinità teriomorfe. E qualcosa di totemico al geco doveva essere attribuito nei tempi, perché gode ancora della credenza che porti fortuna e i contadini non lo uccidono perché sarebbe di malaugurio[10].

Talvolta esiste un’interazione strettissima tra uomini e animali, come nel caso della capra, individuata già da Bodini come emblematica di una realtà minimale e misera quale era ancora quella salentina degli anni Cinquanta del secolo scorso, e il capraio. Qui addirittura Manno riporta le capre alla preistoria, al mito. Esse infatti sono «residui dell’addomesticamento protostorico, della zootecnia omerica e giù giù, quando erano comunissime e numerose nel loro Mediterraneo, tanto da lasciarvi un atlante di toponimi: l’isola della Capraia, Capri, la Punta della Campanella, e tanti altri e nel Tallone, forse, le due Caprariche»[11]. Si legga il brano in cui descrive, con grande maestria stilistica e lessicale, la capra:

La capra  è proterva, scorbutica, bizzosa come i gatti e gli asini nei loro momenti peggiori. Se la guardi nella pupilla di zolfo, tagliata a fuso, ci leggi una pazienza coatta, in attesa di rifarsi violenza. Dalla Bibbia e dal Medioevo s’è trascinata con sé un ricordo sabbatico e luciferino, ma senza note e racconti precisi, ch’io sappia, indigeni. In certi borghi si dice di tesori nascosti, anzi se ne mostra a dito il luogo. Ma invano si scaverebbe: sono sotto la custodia del Demonio il quale li lascerebbe rinvenire, li metterebbe a disposizione, insomma, di colui che fosse capace di somministrare la Santa Comunione a una capra. Un sardonico dileggio di Dio. E nessuno va a perdersi l’anima. L’immaginazione popolare ha inventato questo Faust nostrano potenziale. Segna la cupidigia delle ricchezze, il filo che lo separa dal male[12].

  Questo animale vive, infatti, «in perfetta simbiosi vitale e morale col padrone come cammello e beduino, llama e indio, renna e lappone»[13]. Assai gustosa, a questo proposito, è la descrizione che Manno fa, sia dal lato fisico che da quello caratteriale, del capraio che è «una maschera, un tipo, un personaggio»[14].

Un altro animale identitario del Salento che ha un rapporto particolare con gli abitanti è la gazza, definito «il pappagallo di Puglia» perché impara a parlare anche se non ripete meccanicamente le parole come i pappagalli ma usa il linguaggio con una certa autonomia e sfrontatezza lessicale. La gazza fa da guardia ai depositi di frutta quando il verduraio dorme e collabora con lui, avventandosi  contro i monelli quando questi cercano di acchiappare qualcosa a sua insaputa:

La gazza del verduraio, dunque, saltabecca; e intanto brontola, stride, soffia. Parla la sua lingua. Se un monello tenta l’allungo per acchiappare qualche seme di zucca o un corbezzolo, lei strepita e s’avventa per beccarlo con un goffo sforzo delle sue ali tagliate. Intanto il vecchio padrone appisolato sulla pipa si scuote e aggiunge un suo agli insulti della bestia. Il monello è arretrato ed ora, a distanza tattica, risponde per le rime[15].

Certi animali, nel Salento, sono legati anche a ricorrenze, a feste popolari. È il caso delle lumache che vengono raccolte da povera gente in determinati periodi dell’anno e costituiscono il prelibato cibo in talune occasione. Ma anche certi pesciolini, in dialetto chiamati pupiddhi, «roba da pochi soldi, plebe del mare», sono apprezzati dai «buongustai di ridottissimo cabotaggio» come «saporita frittura»[16]. Anche questi entrano in certi modi di dire dei ragazzi durante i loro giochi:

Pupiddhru, scuntalu a quiddhru! Pupiddhru, prenditela con quell’altro! È la frase d’un gioco di ragazzi che si danno dei colpetti e il colpito deve colpire un altro che sguscia. Scelto alla perfezione, il pesciolino come eroe eponimo del gioco. Pupiddhru, e monellume da strada. Identità d’infanzia, di birichinate, di agilità, di masnada demograficamente incrementata, di vivezza minuta e acerba[17].

Frequente in Manno è il riferimento a epoche e civiltà lontanissime: preistoria, Grecia, Roma, ma anche alla mitologia. La civetta, ad esempio, è riportata all’antica Grecia:

Attica e nostra. Di quelli come di questi ulivi. Di quei divini frontoni e dei nostri campanili mozzi. Posidone ed Atena, in verità avrebbero potuto disputarsi il nome della terra, tra Jonio e Adriatico. Altri dei indigeti fecero prima di loro. Avrebbe vinto anche qui Minerva: con gli ulivi e con la civetta. E nome greco – bizantino – ha nel popolo: cuccuàscia[18].

Anche il ramarro – scrive – «viene da migliaia di secoli, dall’infanzia del mondo. Dà la vita, più dei turisti e della memoria, più del tremolare dell’aria sotto il sole, alle rovine. Oh, il musino d’un ramarro, fra le rovine dell’Acropoli, del Foro romano, del tempio di Ammone! Sembra una parte stessa, un filo dell’eternità»[19]. Eppure adesso – osserva Manno ‒  il ramarro costituisce un passatempo per i ragazzini che si divertono a catturarli al lazo servendosi di uno stelo d’erba:

Quando i ragazzi ne catturano uno al lazo con uno stelo d’erba ritorta al cappio, hanno il piglio di gloria del gaucho che ha immobilizzato al primo lancio la bestia indomabile. Perciò il ramarro dice nella terra chiusa delle muricce un po’ di pampa, d’avventura. Per i più piccini[20].

Interamente inserita nel mito e derivante da tradizioni antichissime è infine la tarantola a cui Manno dedica il pezzo più articolato del libro, quasi un breve racconto. Qui infatti egli descrive con toni di sapore quasi espressionistico una scena a cui aveva assistito da bambino, la danza sfrenata della “tarantata” accompagnata dal suonatore di tamburello:

La tarantata, una giovane formosa, di bella acerbità di forme, d’aspetto sano, se non fosse stato il pallore, un pallore di violenza, acceso a scadenze da acute fiammate, ballava in un modo scomposto e arruffato, fremebondo, che alternava convulse impennate e abbandoni d’un’agitazione ritmica più quieta e scandita. Era il coribante che amministrava la furia della disgraziata, con la pietà che gli lasciava l’esercizio di quella funzione: la necessità di secondare un attacco fatale e il tentativo di aiutare lo scaricarsi della furia. Si teneva per lo più a ritmazioni lente e pacate concedendo soste ed indugi a quello strazio di poveretta. Ma se avvertiva l’insufficienza di quella guida alla foga della mènade e il pericolo d’un furore d’insaziata, le dava nuovo aire con crescendi, le stendeva il tamburello sul volto con un incitamento violento, partecipe, tirannico[21].

Manno non prende posizioni sulle cause del tarantismo e dice di lasciare «ai medici la parola», ma fa un’ipotesi sulle origini di questo rito misterioso che affonda le radici nell’antica Grecia, poi fatto proprio dal cristianesimo:

Quel delirio selvaggio affondava le origini in una delle età più feconde dell’uomo, quella vichiana della fantasia. Nella terra dell’alterna vicenda del fulgore estivo e della tristezza invernale, così marcati nella loro opposizione, diceva ancora del suo legame con il culto e le scene dionisiache, con le Baccanti e i tirsi e il tiaso… E dentro questa materia della natura, il varco ascetico del cristianesimo: Dioniso in demonio, il coribante in taumaturgo, il tiaso in processione. I serpi ideali che la baccante si staccava da sé stringendo e riaprendo la violenza dai pugni al suo fianco e gettandoli alla porta, non erano i serpi di cui le Mènadi si ricingevano il corpo, ma il Maligno della Redenzione insinuatosi nel corpo della prescelta[22].

Successivamente fa riferimento alla fase finale del rito, la festa di San Paolo a Galatina dove le tarantate andavano a bere l’acqua della Cappella del Santo per avere la guarigione:

Grandi e Piccole Dionisie sono affondate coi culti degli dei falsi e bugiardi. Ma a Galatina, che porta nel nome il biancore del suo panorama di tufi e di calce, per la festa di San Paolo, accorrono le tarantate a bere l’acqua miracolosa del pozzo pieno di biscie, nella cappelletta. Il serpe dionisiaco resta, simbolo trasferito, nella sitibonda speranza di guarigione[23].

Alla fine torna a occuparsi, quasi ironicamente, dell’inoffensivo ragno che è ritenuto la causa di tutto ciò:

E invece la bestia vive la sua giornata di filatrice di ragnatele e insidie per mosche e zanzare, lassù, sotto le volte, tra i suoi pianeti di fili e raggi di polvere, vicina al geco. Inaspettatamente, ballonzola calandosi per una sua gugliata di polvere nel vuoto. Sarà stato un pensiero rientrato o un attacco fallito, perché subito si riarrampica e torna nella sua  galassia[24].

E in questo pezzo dedicato alla tarantola non può non colpire la particolare attenzione da parte di Manno per un fenomeno identitario del Salento, come il tarantismo, che da lì a un anno sarebbe stato studiato in loco da Ernesto de Martino che l’avrebbe accuratamente descritto in un libro famoso[25].

[In “Critica letteraria”, a. L, fasc. IV, n. 197/2022, pp.847-861].


[1] Su Fernando Manno cfr. la Nota biografica, compresa nella ristampa di Secoli fra gli ulivi, a cura di Antonio Errico, San Cesario di Lecce, Piero Manni, 2007, pp. 181-184.

[2] V. Bodini, Un pittore e un narratore. Alla scoperta del Salento, «Mercoledì», Bari, 15 ottobre 1958, p. 6; poi col titolo Secoli fra gli ulivi, «La Fiera letteraria», 2 novembre 1958, p. 8.

[3] Ibidem.

[4] Fernando Manno, Secoli fra gli ulivi, con 25 disegni di Lino Suppressa, Galatina, Pajano, 1958 p. 118.

[5] Ibidem.                                                                                      

[6] Sui bestiari contemporanei cfr. Bestiari del Novecento, a cura di Enza Biagini e Anna Nozzoli, Roma, Bulzoni, 2000; Cristiano Spila, Forme e problemi del simbolismo animale; il genere del bestiario nel Novecento, in Simbolisno animale e letteratura, a cura di Dora Faraci, Roma, Vecchiarelli, 2003, pp. 253-264.

[7] F. Manno, Secoli tra gli ulivi, cit., p. 120.

[8] Ibidem.

[9] Ivi, p. 123.

[10] Ibidem.                                         

[11] Ivi, p. 126.

[12] Ivi, p. 127.

[13] Ivi, p. 128.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, p. 137.

[16] Le citazioni, ivi, p. 144.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p. 125.

[19] Ivi, p. 133.

[20] Ibidem.

[21] Ivi, p. 139.

[22] Ivi, p.141

[23] Ivi, p. 142.

[24] Ibidem.

[25] Ci riferiamo ovviamente a Ernesto de Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud Milano, Il Saggiatore, 1961.

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