Letteratur (e) Rerum vulgarium fragmenta 5. Per salvarci dall’apparenza

Ecco, dunque. Forse viviamo in una bolla colorata che in qualche caso si dissolve, e quando si dissolve ci lascia nella solitudine più assoluta e nella totale irriconoscibilità di noi stessi.

Non abbiamo parole per dirci, raccontarci, per esprimere le nostre paure e le nostre speranze, se non quelle false registrate in un dizionario del mercato al quale facciamo ricorso per ogni evenienza.

Allora, forse avremmo bisogno di ricercarci nella letteratura: in quella realtà di finzione che però rappresenta un catalogo dei tempi e delle creature, in quel linguaggio che nella forma dell’ artificio cela la sostanza della naturalezza, della sincerità.

Ne avremmo bisogno a livello soggettivo e a livello di civiltà. Per non farci travolgere, singolarmente e collettivamente, dalla valanga della vacuità e dell’indifferenza, per non ridurre le nostre esistenze ad immagine e somiglianza di robot.

Forse la letteratura è ancora una delle poche condizioni che ci consentono la possibilità della riflessione, dell’analisi, del confronto. Ma forse è proprio questa la ragione che ci induce, consapevolmente o inconsapevolmente, a sbarazzarcene. Perché vogliamo pensare sempre di meno. Vogliamo indagarci sempre di meno. Comprenderci sempre di meno. Vogliamo allontanarci dalla nostra congenita complessità, metterci al riparo dalla sassaiola di domande che altri potrebbero farci, che più probabilmente noi stessi potremmo farci. La moltitudine di strumenti che abbiamo a disposizione e di cui ci siamo circondati, ci ha fatto capire che possiamo fare a meno di cercare risposte dentro di noi perché abbiamo a disposizione sistemi che danno immediatamente risposte comode, compiacenti, che non ci scuotono, che non ci incomodano, che non ci inquietano. Che ci illudono sempre, non ci deludono mai.  

Non vogliamo parole e rappresentazioni con le quali dirci chi siamo, veramente, di che cosa abbiamo paura o desiderio, veramente. Stiamo bene sotto la grande, immensa galleria della luminaria che  attraversiamo continuamente e non vogliamo conoscere il sottosuolo, non vogliamo neppure il buio che ci permette di vedere le stelle. Ci piace la luce innaturale.

Non si vuole fare nessun riferimento all’antica questione della funzione sociale della letteratura. Però viene spontaneo affermare che, forse mai come in questo tempo, la letteratura si carica di una funzione essenziale per l’espressione dell’unicità della condizione umana. Perché il rischio che si possa arrivare a non saper pronunciare neppure il proprio nome, si deve mettere nel conto.

Probabilmente l’affermazione risulta esagerata. Però talune volte accade che le esagerazioni si costituiscano come previsioni. Nessuno lo vorrebbe, certamente.

Se questo tempo ha bisogno della letteratura più di quanto ne abbiano avuto i tempi passati, probabilmente lo si deve alla  circostanza che mai come in questo tempo i prodotti creati dall’uomo possono finire con l’assoggettarlo.

Così quella letteratura che serve proprio a poco, che serve sempre di meno, che non serve quasi  a niente, forse rimane ancora la sola situazione in grado di raccontarci non solo come siamo stati e come siamo, ma anche come sarà il mondo  domani, domani l’altro, come saranno coloro che lo abiteranno. In modo da poterci regolare sul da farsi.

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