Letteratur (e) Rerum vulgarium fragmenta 5. Per salvarci dall’apparenza

di Antonio Errico

La letteratura serve a poco, serve sempre di meno, forse non serve più a niente. Non sappiamo che farcene dei profili di esistenza, delle configurazioni di destini, delle storie profonde, complesse, degli interrogativi, dei dubbi, dei ragionamenti a cui ci costringe. Noi adoriamo la linearità, la superficie. Anche il vuoto. Non vogliamo risposte perché non abbiamo e non vogliamo domande. La letteratura che frequentiamo, casualmente e per spassatempo, pensata e prodotta per i nostri brevissimi intermezzi, non deve implicare il pensiero, non deve complicare la vita, non ci deve richiedere di soffermarci a pensare, perché quello che pensiamo ci basta ed avanza, perché abbiamo tanto da fare e andiamo in fretta. Ma poi, il suo universo è ormai superato, consumato nei suoi significati, nelle sue metafore. E’ un universo di opaca nostalgia. Ne abbiamo altri, adesso, di universi. Risplendenti, stralucenti, che proiettano forme e sostanze adeguate ai tempi. In questi universi l’esperienza di esistere è collettiva, senza differenze di felicità e di angoscia. Siamo tutti felici e angosciati all’identico modo. Soddisfatti da un’esteriorità che trascura o ignora la dimensione interiore. 

Però, di tanto in tanto qualcuno insinua un dubbio: si avventura nel dire che stiamo perdendo o abbiamo già perso autenticità, identità, pensiero. Dice che abbiamo perso la parola che significa, che vale.

Di tanto in tanto qualcuno insinua dubbi.

All’inizio di una conversazione fra Zigmunt Bauman e Riccardo Mazzeo, proposta in un libro che s’intitola, semplicemente, Elogio della letteratura, Mazzeo sostiene che se si vuole rispettare la complessità e l’infinita variegatezza dell’esperienza umana così come viene percepita e vissuta intimamente, è evidente che non si possono ridurre gli individui a “homunculi” identificabili o descrivibili in termini di schemi e statistiche, di dati e fatti oggettivi, e la letteratura è per sua stessa natura ambivalente, metaforica e metonimica, capace di rendere la solidità e la liquidità, l’omogeneità e la pluralità, il liscio della continuità ma anche l’agro, il ruvido, il crocchiante che abitano le nostre esistenze.  Non solo siamo carenti delle parole per dire chi siamo e che cosa vogliamo, ma siamo finanche imbeccati, rimpinzati e saturati di parole tanto vuote e inerti quanto luccicanti e attraenti e adescatrici. Sono le parole chiave che ci vengono ripetute dalle sirene dell’ entertainment, dei nuovi sbalorditivi dispositivi tecnologici, dei sempre nuovi irresistibili prodotti di culto che ci consentono di apparire in società come gli altri si aspettano.

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