Nel laboratorio il dipinto è stato verificato in Microscopia ottica digitale, Fluorescenza U.V. e Riflettografia I. R. con risultati sorprendenti: «confermata la datazione a fine ‘800 dei materiali originali di supporto e pittorici da esame visivo e dalla buona fluorescenza di base mostrata; assenza di danni o degradi e restauri pittorici successivi. La tecnica pittorica decisa e spontanea realizzata senza disegno preparatorio con pennellate materiche, forse dal vero; qualità pittorica evidente in I.R. come consueto per maestri del ritratto […]. La datazione al 1889 iscritta sul retro della tavoletta è senz’altro confermata come detto dalla verifica della tipologia e stato dei materiali originali»[2].
Orsolina di Mantova è un
ritratto squisito, delicatissimo, forse di una trovatella delle Suore
Orsoline, o probabilmente delle «educande del monastero di San Vincenzo alla
Sanità»[3]: che potevano frequentare i
corsi per lavori domestici di ricamo e sartoria. Queste informazioni concordano
con l’altra pubblicazione di Toma, Merletti Napoletani, ma anche con il
dipinto La scuola delle merlettaie cieche (1872). Le Suore Orsoline
rientrerebbero dunque in quei luoghi frequentati abitualmente dal Prof.
Gioacchino Toma, l’artista aveva infatti ideato il cosiddetto «Metodo Toma»,
un corso di disegno in uso nelle sue scuole di arti e mestieri, utile anche
all’insegnamento del disegno nei corsi per ricamatrici, qui Toma è probabile
abbia incontrato la piccola Orsolina, rimanendone profondamente colpito.
La tavoletta è un condensato di accademismi, riconduce ai secolari fondamenti della tecnica pittorica, il volto è costruito secondo il principio delle linee «diagonali passanti per più punti»[4]. Nell’album di schizzi dell’architetto medievale Villard de Honnecourt (XII sec.), custodito presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, sono presenti circa 250 disegni tra cui lo schema per la costruzione di una testa basato su griglie formate da diagonali che suddividono il volto in aree romboidali e punti ben precisi; schemi analoghi si ritrovano nel «De Divina proporzione» di Fra Luca Pacioli, stampato a Venezia nel 1509, con le cosiddette «linee d’inviluppo» e «linee di contrasto»[5]: in questo caso specifico il volto è stato costruito sulle rigide regole delle linee diagonali passanti per più punti.
Inoltre, riaffiora un dettaglio apparentemente insignificante riguardante la superficie lignea «trattata sul fronte con una sottile preparazione bianca»[6]. Il dato riconduce ad un passo del volume di Cennino Cennini Il libro dell’arte, testo fondamentale nelle accademie del secolo XIX; nel paragrafo dedicato alla tecnica di dipingere su tavola Cennini descrive i passi da seguire: «Capitolo V / A cche modo cominci a disegniare in tavoletta / e ll’ordine suo»[7]. L’autore indica nel dettaglio il processo per la preparazione di una tavoletta con polvere di osso di seppia mescolata con la «sciliva»[8] e spalmata con le dita su una tavoletta di legno di bosso, destinata ad essere dipinta. La sottile patina bianca, indicata nella perizia, troverebbe dunque un corrispettivo nello storico volume scritto a Padova tra il XIV e il XV secolo. A questo punto è evidente come l’opera di un falsario sia scongiurata, tanto per le dimensioni esigue del dipinto, quanto per le soluzioni tecniche adottate dall’autore, a parere di Spaggiari un «maestro del ritratto».
Ma gli elementi di maggiore rilevanza sono il colletto del vestito della bambina e il colore di fondo del ritratto. Il primo è segno tangibile dell’assoluta padronanza dello strumento coloristico, una teoria di pennellate apparentemente casuali, una lezione ancora in corso sull’idea di «macchia di colore» applicata dal Prof. Gioacchino Toma già dal 1875 (Cfr. I gemelli[9]); il secondo corrisponde perfettamente al colore dominante che impregna la tavolozza originale dell’artista custodita a Galatina, nella sala mostre del Liceo Artistico. Tutti questi elementi riconducono certamente ad un’opera genuina realizzata nel «Giugno 1889», stesso anno in cui nacque l’ultimogenita del pittore, la piccola Maria Toma[10], settima ed ultima figlia del pittore. Dopo esattamente diciotto mesi dalla realizzazione del quadretto intitolato Orsolina di Mantova, Gioacchino Toma sarebbe morto, a Napoli, per ischemia cerebrale, ma con un lascito culturale ed un pensiero artistico ancora vivi, nonostante da quel giorno siano trascorsi ormai più di 131 anni.
(Testo estratto dalla conferenza che si terrà il 27 dicembre 2022)
[1] C. Spaggiari, Nota tecnica – N. Scheda R952, Castel Gandolfo, 9 aprile 2020;
[2] Ibid.;
[3] A. Petrucci, Le «Seppie» di Giovacchino Toma. Ovvero: una piccola idea, in Pernix Apulia, Ed. Adda, Bari, 1971, (p. 186);
[4] Leon A. Rosa, La tecnica della pittura, Società Editrice Libraria, Milano, 1949;
[5] Ibid.;
[6] C. Spaggiari, Op. Cit.;
[7] Cennino Cennini, Il libro dell’arte, a cura di F. Frezzato, Neri Pozza, Vicenza, 2003 (p. 65);
[8] Ibid.;
[9] B. Mantura – N. Spinosa, Gioacchino Toma 1836-1891, Electa Napoli, 1995 (pp. 62, 107, 108); e in Michele Biancale, Gioacchino Toma, Società Editrice di Novissima, Roma, 1933 (p. 114, Tav. XX);
[10] Cfr. A. Cassiano, Gioacchino Toma 1836 1891- Guida alla Mostra, Congedo Editore, Galatina, 1996 (p. 4).