Letteratur (e) Rerum vulgarium fragmenta 3. Al tempo degli argini smottanti

Però non c’è alcun dubbio neanche sul fatto che gli uomini senza letteratura non potranno sapere mai come avrebbero vissuto, come vivrebbero, se la letteratura avesse accompagnato o accompagnasse in qualche modo i loro giorni. Certamente non sarebbero più felici e neanche meno infelici, non sarebbero più o meno sapienti; non avrebbero più sentimento e neanche di meno, probabilmente non avrebbero neppure meno idee, neanche meno sogni, neanche meno parole. Probabilmente la sola cosa in più che avrebbero avuto, che avrebbero,  se fossero stati o se fossero  uomini con letteratura, sarebbe stata e sarebbe la conoscenza di una rappresentazione un po’ reale e un po’ fantastica della profondità dell’esistenza. Che è quella conoscenza di cui forse, in questo tempo, abbiamo più bisogno. Perché questo tempo non consente più, non tollera più il lusso della superficialità. Quel lusso abbiamo potuto permettercelo fino ad un certo punto. Adesso non più. Adesso abbiamo bisogno di scendere fino ad arrivare al lievito delle storie che attraversiamo, alla radice semantica dei fatti che accadono vicino a noi, lontano da noi, dentro di noi. Abbiamo bisogno, come dice Elif Shafak, di rimetterci in contatto con gli altri esseri umani in modo molto più profondo, perché soltanto scandagliando le profondità possiamo capire il nostro essere umani. Le emozioni si generano nella profondità. Le passioni, le paure, hanno la loro residenza nella profondità. La letteratura ci insegna a cercare nella dimensione della profondità. Con la sua ambivalenza, con le sue metafore,  con la sua carica metonimica, con i suoi giochi di specchi, con i riflessi, con la sua finzione, ci insegna a cercare l’essenziale di ogni esistenza custodito dalla profondità. Anche quando sembra che voglia svagare, che voglia distogliere dagli affanni, che intenda semplicemente intrattenere, ci sta insegnano ad essere più consapevoli, più umani, più compassionevoli.

Non ad altro che a questo è sempre servita la letteratura, sostanzialmente: ad esprimere l’indispensabilità della  prossimità delle esistenze, a rappresentare il valore della diversità delle esperienze, a disegnare volti  nei quali cercare rassomiglianze e differenze. A proporre un catalogo dei destini. 

Ma in questo tempo di complessità, di complicazione, di garbuglio, probabilmente serve, soprattutto, ad insegnarci una maggiore consapevolezza di quello che siamo, delle nostre possibilità e impossibilità, a provocarci una più esplicita sensibilità nei confronti dell’altro ma anche  nei confronti di noi stessi e della nostra e altrui esperienza di esistere, a rinvigorire il sentimento della compassione, della passione condivisa.

Certo, della letteratura si può fare a meno, senza che il farne a meno provochi l’apocalisse. Però senza letteratura ci si ritrova più soli: si ritrova più solo un uomo; si ritrova più sola una civiltà. Forse siamo arrivati ad un tempo in cui bisogna scegliere. Di solito i tempi in cui bisogna scegliere, sono quelli delle mutazioni antropologiche, delle riformulazioni radicali che coinvolgono i codici con cui si rappresentano i sistemi sociali. Solitamente i tempi in cui si rivela urgente scegliere sono quelli che vengono definiti della crisi, o comunque delle riconsiderazioni particolari e generali. Sono i tempi in cui gli argini sembrano smottare o smottano veramente.

Molte condizioni e  molti segni dicono che noi, ora, qui, stiamo attraversando un tempo così: di crisi, riformulazioni, riconsiderazioni. Anche di smottamenti delle certezze. 

Allora questo è un tempo che  richiede, che forse  impone di fare delle scelte. Fra le tante anche quella di sentirci più o meno soli, come uomini e come civiltà.

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