Nella prima delle alette sono riportati alcuni giudizi critici di: Giuseppe Leopizzi (prefatore del volume), del compianto umanista casaranese Gino Pisanò, di Franca Rossi («Gazzetta del Mezzogiorno»), di Giuseppe Albahari («Gazzetta del Mezzogiorno»), di Luca Liguori (Rai/Gr2), dell’altro compianto umanista tricasino Donato Valli.
Già nella prefazione del nostro caro don Giuseppe Leopizzi – altro compianto umanista dei nostri tempi -, scorgiamo l’epos poetico da lui rilevato nella narrazione. Ed è sufficiente citare alcune sue frasi per avere coscienza di ciò. Egli scrive che si tratta di:
«una pagina gloriosa e stimolante […] I gallipolini si difesero strenuamente con tutte le forze (con episodi di valore anche da parte di donne, vecchi e bambini), e dalle loro mura, contrassegnate da 12 torri o fortezze (rivellini) risposero adeguatamente ai ripetuti attacchi delle navi nemiche; dopo tre giorni di aspra ostilità, uccisero con un colpo di colubrina il generale Marcello [Venezia, 1413 – Gallipoli, 1484]».
L’ammiraglio Giacomo Marcello è noto per avere occupato, appunto il 19 maggio 1484 la penisola salentina e, soprattutto, per avere assediato e conquistato Gallipoli il 17 di quello stesso mese. L’evento è rievocato in un dipinto che si trova nella sala del sindaco di Venezia.
La narrazione de L’isola e il Leone si apre con la descrizione della morte dell’Ammiraglio Giacomo Marcello sotto le mura di Gallipoli, colpito da
«una palla ghiacciata di ferro [che] gli squarcia la corazza» e, mentre che la sua anima lasciava il corpo,
«ricordò d’improvviso l’uomo dalla tre aste, il mercante cieco, la donna delle rocce, il frate buffone e la vergine dei Sàmari; [e] le profezie della Maga di Corfù e della Madonna Lanciatrice; ricordò anche le parole del General Sindaco di quella città di pietra e di luce, calamitata da costellazioni, di sogni e di misteri». Il canto che si eleva da questo brano non può che essere musica, canto musicale, quindi poetico.
L’autore descrive poi la città, e scrive:
«Allora Gallipoli era un’isola su cui scorreva e si dipanava l’intricata matassa dei chiaroscuri. […] era come un prisma di rose che proiettava la sua luce in tutte le direzioni. La luce della calce che ricopriva le case di tufo e le chiese saliva verso l’alto, mentre la luce del cielo si tingeva di rosa e d’azzurro riverberando sulle alte muraglie perimetrali». Qui il verso poetico si fa colore e sfolgora nell’elogio del bianco della calce.
L’arrivo della flotta veneziana comparve all’orizzonte, oltre l’isola di sant’Andrea, il 17 maggio 1484. Le donne e gli uomini corsero sulle mura. Il poeta scrive che:
«quel giorno anche i bambini corsero sulla riviera di scirocco svegliandosi dal mistero del sonno e il vecchio ‘zzì Vasinicò dimenticò la sua stanchezza e pensò che era ancora giovane e forte per salire sull’alto della torre e vedere i velieri danzare». I velieri che danzano? È l’effetto poetico di chi ha tenuto per tutta una vita lo sguardo sul mare e per il mare si è messo in camicia per abbracciarlo meglio.
Parole poetiche l’autore fa scorrere nella narrazione quasi fossero pillole mielate:
«in quell’alba così quieta e perfetta che celava sotto la veste azzurra coltelli di sangue. Gli parve che la bellezza di Gallipoli fosse racchiusa in una clessidrra misteriosa, nel passato di un’altra vita in cui la memoria calamita le aurore e i brividi delle pietre. Gli sembrò che in quel silenzio s’aprissero voci, echi, nostalgie, ricordi, ma una nebbia copriva la danza delle immagini e davanti ai suoi occhi non v’era che il balenio d’ombre del castello e dei bastioni turriti». Coltelli di sangue, clessidra misteriosa, aurore e brividi delle pietre, danze delle immagini, sono tutte metafore poetiche. E ancora danza è quella che:
«ogni uomo e ogni donna fondevano i propri pensieri e le proprie emozioni nella battaglia contro i veneziani mentre il cielo era gravido di polvere biancastra e i gabbiani ignari scatenavano la loro innocenza in una danza di voli». Anche qui a danzare poeticamente sono anche gli uccelli di mare, gli eterni gabbiani di Gallipoli.
La fantasia immaginifica di Benemeglio sembra non avere confini. Tutta si dipana come volta stellata quando Giacomo Marcello:
«vide una luce che feriva il suo sguardo, una luce di donna vestita d’azzurro che aveva in braccio un bambino dalla parte del cuore e nella mano libera una pietra nera. La luce d’improvviso balenò sulla pietra come una lama scintillante e ferì [i suoi] occhi». Era la Madonna Lanciatrice che consigliava il comandante di allontanarsi da quelle mura.
L’ammiraglio Giacomo Marcello incita i suoi marinai all’assalto della città quando:
«i canti dei marinai galleggiavano sull’acqua fino alla sua riva immobile, ed erano forse canti di vittoria. Un’ombra di fanciulla scalza attraversava l’orizzonte, e il cielo e il mare si toccavano, si carezzavano e ogni carezza durava un secolo». Ancora un canto, no, anzi alcuni canti, che «galleggiano sull’acqua» e «una fanciulla scalza attraversava l’orizzonte». Metafore gonfie di immaginazione, di poesia che nuvoleggia.
E che dire di questi versi in prosa:
«Su Gallipoli sembrava che il cielo si fosse aperto in tutta la sua larghezza per lasciar piovere fuoco e polvere. Era ormai un giorno intero che i veneziani bombardavano sia da terra che da mare il castello e i bastioni. Già sul sangue grigio delle mura della città s’erano aperti varchi e la gente, perduto il delirio iniziale, ora gemeva e si lamentava./ Donne in schiera invocavano Sant’Agata e Santa Vennardia e pregavano sui gradini della cattedrale. Altre chiedevano invano un po’ di cibo per i bambini che morivano di fame. Mamme disperate nutrivano i figli già grandi con le loro mammelle vizze». Qui la storia tremenda dell’assedio alla città si condensa in quelle due sante molto venerate dai gallipolini e soprattutto dalle gallipoline.
Le sante entrano ed escono dalla narrazione con un ritmo poetico incessante. “Ascoltate” con la mente la musica di queste parole:
«La donna delle rocce [una santa] distese la sua lunga chioma guizzante d’azzurro e di fuoco. Aveva l’intenso profumo del mare, gli occhi ardenti e profondissimi delle notti sul mare». «Azzurro», «fuoco», «profumo», «ardenti», già di per sé sono parole poetiche. Se ad esse poi aggiungiamo gli aggettivi e il sostantivo che Benemeglio vi ha giustapposto, il quadro è bell’appeso alla parete poetico-pittorica.
Stupendo è poi questo periodo nell’ingresso nella narrazione dell’ammiraglio Malipiero, che prende il comando dopo la morte di Marcello:
«Ma intanto nel cielo era già sovrana la luna e rischiarava l’elmo metallico dei soldati. La luna era ormai seduta sulla porta di terra ed aveva tante fiocine nel cuore. Allora il comandante vide la luna sanguinante e ordinò alle navi di allontanarsi dalle mura ferite». È sorprendente vedere la luna che si siede sulla porta di terra (solo un vero poeta lo può scrivere) e, ancor più, vederla fiocinata. Luna che “sanguina” non solo per le “ferite fisiche”, ma per sgomento del cuore.
E poi, e ancora, e per tutto il racconto, la poesia dell’autore si sparge come vento che non smette mai di cantare e al canto s’accompagna un ritmo ancestrale che solo nella città “fedele” gli uomini e le donne che l’abitano sanno ascoltare. Il vento di Gallipoli è vento apollineo, sa dove dirigersi e sa dove fermarsi. Nel caso del capitano di vascello (c) Augusto Benemeglio, il vento ha scelto di fermarsi anche sull’Isola e il Leone, con tenerezza, con eleganza, con garbo, con affetto, mai con cinismo, mai con odio, mai con strafottenza, ma sempre con quell’infinito amore per l’umanità tutta e per quella che per alcuna decenni è stata la sua città del cuore: Gallipoli.
Augusto Benemeglio è poeta, poeta vero. Per questo:
Ama il teatro. Tutto. Quello del tempo antico, quello del medio periodo, quello di oggi.
Ama i suoi meandri, le sue pieghe, le sue quinte.
Ama essere presente, se può sempre, perché non gli dispiacciono gli effetti a sorpresa, il tempo dei ritmi, delle pause, dei silenzi.
Ama la scena plateale, il riconoscimento, il pubblico che lo chiama per nome e che l’applaude.
Ama il mascheramento, come il nascondersi dietro uno pseudonimo, se pur sempre bello quel nome. Ama la modestia, il decoro, la correttezza.
Ama la poesia: quella che non muore mai, ma ha stima anche della scrittura del e nel silenzio, magari in un posto dove non passa anima, né si vede luce di Dio.
Ama scrivere, sempre, in tutti i sensi, partendo da qualsiasi porta d’ingresso, su orizzonti diversissimi, attraversando labirinti danteschi, per giochi che non hanno nulla a che vedere con il banale, con l’effimero. È novello Teseo legato al filo della bella di oggi.
Ama l’armonia degli elementi del Creato, i sospiri delle divinità ctonie, la voce del vento.
Ama il fare delle cose del mondo, tanto che le fa con passione, sempre, e con senso del dovere, anche a costo di sacrifici, senza delega per nessuno.
Ama l’amicizia come sacramento di vita suprema e sa essere sodale anche quando i venti non spirano esattamente nella direzione giusta. Su di lui si può contare, sempre, fino all’ultimo passo, all’ultimo respiro, all’ultimo confine.
Ama lo sport, soprattutto quello dei rettangoli di terra battuta con la rete al centro campo, ma poi è tutto lì il confronto in gara che lo pervade.
Ama la bellezza, quella pura, e in essa s’immerge pago di essere nato, felice di vedere ad Oriente sorgere il sole mattutino e, al crepuscolo gallipolino, lo stesso sole che s’immerge in un mare di smeraldo.
Ama il mondo, quello in cui è possibile ancora respirare l’aria della libertà.
Ama la musica, l’incanto del sibilo lungo che acquieta l’anima in pena.
Ama camminare sugli astri, alitare sulla polvere della luna.
Ama il mito, tutti conoscono il suo specchiarsi nell’eroe omerico.
Ama l’Italia, sua perenne Patria, ne ama la bandiera, la storia, l’avvicendarsi degli eventi.
Ama il Salento, il suo colore, la sua pietra gialla e porosa, la bauxitica terra rossa, i muretti a secco, gli ulivi secolari, i fichidindia, i verdi caprifichi.
Ama Gallipoli, la città alla quale ha donato gran parte dei suoi anni più belli, dove sono innervate le sue radici culturali. Di essa ama soprattutto lo ‘Scoglio’ a cui ha legato la sua esistenza di marinaio, di uomo di mare, di capitano di vascello ritto sulla prua della nave-città con lo sguardo rivolto all’incavo di Ponente, là dove il sole va ad immergersi dentro il catino infuocato delle acque spumeggianti.
Ama il mare, e l’onda lunga, e quella plurima. Su qualsiasi latitudine o longitudine egli si trovi e lì, nell’azzurro sacro a Nettuno, lasciandosi sprofondare come Nautilus innamorato alla ricerca di isole di luce, dove il sole non tramonta mai.
Ama la sua dolce metà come confine e argine della sua esistenza.
Il suo vocabolario è vasto e vario. Conosce profondamente il territorio dove ha vissuto, amato e desiderato. Conosce la letteratura mondiale, nazionale e locale. È libero come un Pegaso che vola per spazi siderali. Gallipoli come città di riferimento magico. La sua Grande Madre è la Grande Madre Terra come pure la Grande Madre del luogo dove vive. La sua religione va oltre la piatta riconoscenza dei fenomeni mistici. Conosce il barocco, la cartapesta, i figuli, i fabbri, gli edili. Conosce la Divina Proporzione delle spazi e le Aure Distanze come i Pitagorici d’un tempo. È poeta, drammaturgo, prosatore, lettore fino in fondo di testi. Quando scrive è sempre dolce e suadente. Ha il senso della storia. Memoria di ferro.
Dicono esserci molte cose che egli non ama, altre che, forse, gli danno fastidio. Però, cosa possiamo farci noi? Sappiamo solo che egli è qui, tra di noi, che scrive e declama versi. Ed è qui che possiamo accorgerci dell’uomo, della sua personalità, dei suoi grandi amori, delle sue scoperte simpatie, della sua fantasia senza briglie, del suo correre sugli spalti del cielo. Vasta è la sua conoscenza culturale, la sua competenza letteraria, il suo buon uso della lingua italiana. Ma più di ogni cosa è vasta la sua e varia umanità. Questo è Augusto Benemeglio, poeta.