L’inutilità di un sapere che non somiglia all’esistenza

Si tratta di una identificazione convenzionale, perché poi la natura, la finalità e la funzione di una e dell’altra sfera del sapere si rispecchiano o si contemperano.

L’uomo aveva paura del lampo e del tuono. Così raccontava la paura che aveva e cercava di spiegarsi la causa di quel fenomeno. In quel modo conduceva la sua ricerca che metteva insieme il racconto e l’indagine come sintesi, l’uno e l’altra, di una modalità di espressione del pensiero.

Poi ad un certo punto ha capito per quale motivo accadono il lampo e il tuono, ma questa comprensione non basta ad impedire che qualche volta abbia – ancora –  paura, senza riuscire a darsi una razionale spiegazione. Così  continua a raccontare la sua paura e, soprattutto, continua a raccontare la mancanza di una spiegazione.

Forse questo significa che nemmeno l’uomo della scienza e della tecnica più sofisticate può rinunciare al confronto con se stesso più intimo, viscerale, che può avvenire soltanto attraverso quelle modalità di pensiero e di espressione che, sempre convenzionalmente, riconduciamo nei territori di un sapere umanistico.

Pero, se volessimo, tanto per insignificante ed inutile esercizio, mantenere la separazione e individuare quale dei due saperi costituisca una efficace rappresentazione dell’esistere – considerato che se  il sapere non è questa rappresentazione allora non è niente – si potrebbe dire, assumendo il numero a simbolo del sapere scientifico, che l’esistere non comincia con un numero e nemmeno con un numero finisce, e che il numero non serve neppure a sciogliere le incognite dell’esistere.

Già. Si potrebbe dire. Ma l’obiezione sarebbe fin troppo facile. Basterebbe riprendere un’affermazione famosa di uno che era di queste parti: “all’inizio e alla fine abbiamo il mistero. Potremmo dire che abbiamo il disegno di Dio. A questo mistero la matematica si avvicina, senza penetrarlo”. Così diceva Ennio De Giorgi.Il problema, dunque, non si risolve separando o, peggio, contrapponendo; si può tentare di risolverlo soltanto integrando le culture. Edgar Morin evidenzia la necessità di un grande accorpamento delle conoscenze nate dalle scienze naturali, al fine di situare la condizione umana nel mondo, con le conoscenze nate dalle scienze umane per spiegare le multidimensionalità e le complessità umane; di qui la necessità di integrare in queste conoscenze l’apporto inestimabile degli studi umanistici, non soltanto quello della filosofia e della storia, ma anche quello della letteratura, della poesia, dell’arte.  
Ecco, dunque: senza questa conciliazione, questo equilibrio, senza un’attenzione,  da parte di ogni disciplina e di ogni conoscenza, nei confronti della condizione umana soggettiva e collettiva, senza una considerazione di quelle che sono le condizioni e le sfumature esistenziali, le passioni, le gioie, i dolori, le fortune, le sfortune, i destini, le necessità, il coraggio, la paura, la speranza, senza un’attribuzione di valore assoluto a quelle che sono le cose – forse mai completamente decifrabili-  del principio e della fine, senza una consapevolezza che ci sono misteri che nessun tipo di codice potrà mai penetrare – né numero, né parola, né silenzio- davvero ci si può ritrovare nel deserto spaventoso  del disumano.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 18 dicembre 2022]

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