Andrea Camilleri e Vittorio Bodini tra il busto di Giosue Carducci e il tabacco Xanti-Yaca

 Bodini, nel 1932,  era uno studente del Regio Ginnasio-Liceo “Palmieri” di Lecce e un giorno venne interrogato su una poesia di Carducci che non aveva minimamente studiato anche perché lo sentiva lontano dalla sua sensibilità, al contrario di un poeta molto più “moderno” come Pascoli, come lo stesso Bodini appena diciottenne scrisse in un articolo proprio nel 1932. Per questo ebbe un voto bassissimo, cosicché, una volta uscito fuori dalla scuola, arrabbiatissimo, prese un calamaio e lo scagliò contro il busto di Carducci, opera dello scultore leccese Luigi Guacci, che è collocato nella piazzetta antistante, sporcandogli la parte inferiore della faccia e la barba. Intervennero i bidelli che cercarono di ripulirlo ma senza successo perché si trattava di inchiostro di china.

Quando nel ’56 ebbe il Premio Carducci, Bodini, pentito del suo gesto, munito di pietra pomice cercò, nottetempo, di cancellare la macchia ma, anche stavolta, senza riuscirci, anzi facendo ancora più danni. Questa vicenda viene narrata da Camilleri anche nel libro Il gioco della mosca, del 1995, in cui l’autore, rifacendosi ai ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, riporta il significato e le storie da cui sono nati proverbi locali, espressioni dialettali e aneddoti del suo paese che gli venivano raccontati dai suoi parenti paterni e materni. Ecco il brano che è ispirato al seguente modo di dire: “U rimorsu di Vincenzo Inclima ca fici danni peiu di prima” (Il rimorso di Vincenzo Inclima che fece danni peggio di prima):

Mia nonna voleva significarmi che certi rimorsi devono restare solo nella coscienza individuale e non tradursi in atti di vana riparazione. Molti anni dopo ne ebbi conferma da Vittorio Bodini, poeta e traduttore egregio del Don Chisciotte e di García Lorca drammaturgo. Studente discolo, Bodini scagliò non visto una boccetta d’inchiostro contro il busto di Giosue Carducci che era al centro del cortile della scuola. Pioggia e intemperie non riuscirono mai a cancellare quella macchia. Divenuto poeta di notorietà nazionale, a un suo libro di versi venne assegnato il Premio che a Carducci tutt’ora s’intitola. Attanagliato dal rimorso per il suo gesto giovanile, armato di raschietto, scalpello e martello, Bodini si recò nottetempo nel cortile della scuola e tentò di far sparire la macchia. Maldestro e nervoso (sarebbe stato assai difficile spiegare la sua presenza a quell’ora a un guardiano),  Bodini a Carducci gli asportò addirittura il naso

Ma nel corso dell’intervista Camilleri ebbe modo anche di manifestare apertamente la sua ammirazione per la poesia di Bodini che giudicava di una “chiarezza esemplare”, ben lontana da quella degli ermetici fiorentini, presso i quali pure si era formato, e di una “forza rara”. Inoltre dimostrava di conoscere bene anche le traduzioni del Don Chisciotte di Cervantes e del Teatro di Lorca che giudicava “meravigliose” e anzi riteneva “insuperabili”.

Ma particolarmente significativa è un’altra occasione di incontro, sia pure virtuale, tra i due scrittori. In un gustoso articolo, dal titolo L’ultima sigaretta, apparso su “la Repubblica – Domenica” il 19 dicembre 2010, Camilleri ricorda Bodini, citando anche alcuni versi di una sua poesia. Lo scritto venne pubblicato in occasione della chiusura della fabbrica di Manifatture Tabacchi a Lecce avvenuta il 31 dicembre 2010, insieme a un articolo di Paolo Russo. Dal primo gennaio 2011, con la chiusura dello stabilimento di Lecce, venne infatti dismessa l’ultima manifattura italiana del tabacco. «Nel dopoguerra un pezzo della società italiana era interamente costruito attorno alla cultura del tabacco ‒ osserva il sociologo Franco Chiarello nell’articolo ‒. In particolare in alcune aree del Mezzogiorno, come il Salento, le manifatture tabacchi rappresentavano quello che la Fiat rappresentava per Torino».

Nello scritto Camilleri rievoca il suo rapporto col fumo, a partire dagli anni Quaranta in cui frequentava il liceo:

Quando frequentavo il liceo, nei lontani anni Quaranta del secolo scorso, molti dei miei compagni usavano andare a fumare di nascosto nei gabinetti durante le pause tra una lezione e l’ altra. Io, malgrado ne avessi gran voglia, non lo facevo. Non perché avessi paura dei bidelli spioni, ma perché pensavo che il nervosismo della clandestinità avrebbe dimezzato il mio piacere. Così, mi ripromisi di fumare alla luce del sole, compiuti i diciotto anni. I miei compagni fumatori arrivavano in genere muniti di una sola sigaretta tenuta dentro le pagine di un libro.

 Poi si sofferma con la consueta ironia sulle varie marche di sigarette:

Le sigarette di maggior consumo erano le Popolari e le Nazionali, soprattutto perché costavano di meno, fatte di tabacco nero non trattato. Poi, durante la guerra, vennero fuori le Milit, un sottoprodotto delle Popolari, che venivano distribuite quasi gratuitamente alle forze armate. Si trattava di sigarette micidiali dalle quali emanava un fumo denso e spesso, fratello minore di quello delle locomotive a carbone, capace di far cadere stecchite le mosche […]. Molto diffuse erano le Macedonia, più leggere delle prime due, con un tabacco qua e là ingentilito da qualche colpo di sole. Erano le sigarette della media borghesia, quelle che fumava mio padre. I più raffinati compravano le Serraglio che erano leggermente più cortee più piatte delle altre ed erano contenute in eleganti pacchetti di cartone, mentre tutti gli altri pacchetti erano di carta spessa. Per i super raffinati c’ erano le Xanthia, molto costose e rare […].  

 Le donne fumatrici ‒ chiarisce Camilleri – erano poche perché “a quei tempi era impensabile che una donna fumasse per esempio per strada, per loro venne creata una confezione molto elegante, bianca, con la marca, Eva, scritta a caratteri dorati. Tutte questa sigarette erano prodotte dalle nostre manifatture che lavoravano il tabacco coltivato nel nostro territorio”.

Successivamente rivelava i suoi gusti in materia:

E qui devo confessare che io non ho mai fumato nessuna delle sigarette delle quali ho parlato. Perché quando compii diciotto anni e misi tra le labbra la prima sigaretta essa era una biondissima Senior Service inglese. Già, perché da un mese gli alleati erano sbarcati in Sicilia e le sigarette straniere si sprecavano. Per completezza d’ informazione, dirò che ben presto sono passato alle Camele da queste alle Philip Morris che tuttora fumo.

Alla fine ricordava che il tipo di tabacco più comune coltivato a Lecce era lo Xanti-Yaca. A questo punto faceva notare che Vittorio Bodini, «poeta salentino e gran traduttore di García Lorca», aveva dedicato ad esso una bella poesia, intitolata proprio Xanti-Yaca, compresa nella raccolta Dopo la luna (1956). Di essa, «a titolo d’elegia per quelle coltivazioni di tabacco ormai per sempre perdute», citava alcuni versi che, nelle intenzioni dell’autore, vogliono dare il senso della storia del Mezzogiorno e della lunga vicenda di emarginazione e di separatezza dal resto della nazione. Ecco i versi:

Al tempo dell’altra guerra contadini e contrabbandieri

si mettevano foglie di Xanti-Yaca

sotto le ascelle

per cadere ammalati.

Le febbri artificiali, la malaria presunta

di cui tremavano e battevano i denti,

erano il loro giudizio

sui governi e la storia.

Così semplice,

che noi non lo avremmo fatto.

Per la loro pregnanza e icasticità, questi versi sono stati citati anche nel best seller di Roberto Saviano, Gomorra (Milano, Feltrinelli, 2006), facendo conoscere a un pubblico molto ampio il nome del poeta e ispanista leccese.  

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