di Antonio Errico
Ogni tempo pretende un racconto che in qualche modo lo rappresenti, che scopra ed esponga quelle che sono le sue ferite superficiali e profonde, che ne riveli le farse e le tragedie, le coerenze e le contraddizioni, le fortune e le sfortune, le vanità e le miserie, le realtà e gli immaginari, gli entusiasmi, le paure, le illusioni, le virtù, i vizi, le finzioni, i volti degli uomini e le maschere sotto cui i volti si nascondono.
Se le vicende del tempo sono prevalentemente lineari, se si dispieganocon un principio e una fine, se le loro trame e i loro intrecci hanno strutture ordinarie, allora sono possibili le grandi narrazioni: quelle storie possenti come cattedrali, con personaggi marcati e robusti, esemplari che interpretano l’epoca e i progetti. Se gli eventi che accadono risultano semanticamente accessibili con logiche interpretazioni, si rivela anche agevole tessere allegorie del sociale, rappresentazioni della realtà nel suo trasformarsi e diventare Storia.
Ma se i fatti, le circostanze, gli avvenimenti, si presentano come groviglio, intrico, continua complicazione, se la decifrazione di quello che accade è sempre dubitabile, precaria, soggetta al sospetto di improbabilità, se la realtà si propone come coacervo di frammenti per cui risulta difficile e comunque incoerente tentare di introdurre un ordine nella confusione, perché il principio regolatore è costituito proprio dalla confusione, dalla frammentarietà, dall’incoerenza, dal travaglio, dalla fluttuazione dei significati, dall’assenza di nessi e dalla disgregazione, allora non si può fare altro che raccontare per frammenti, per microstorie, attraverso disarticolazioni delle ampie strutture, delle macrostorie. Non si può fare altro che muoversi in piccole stanze, analizzando gli strati di polvere depositati sui mobili.