Nerio Tebano tra poesia e pittura

Diario romano, che comprende poesie composte dal 1962 all’83, è dedicato alla città che ospita Tebano da oltre vent’anni. Nella prima delle tre sezioni in cui è diviso il libro, intitolata per l’appunto Città, è descritto l’impatto del poeta con la capitale, un impatto traumatico, causa di una profonda lacerazione interiore, la quale si riflette nelle figure che popolano queste composizioni, colte tutte in attimi di esitazione e smarrimento esistenziale: il “giovane pescatore”, che “ se ne sta immobile / da chissà quante ore” e “forse non pensa a niente” (p. 16), i “due carabinieri, / in servizio, che vanno “avanti e indietro, / lungo il marciapiede / di Piazza di Spagna” e “non sanno cosa dirsi” (p.18), i “due innamorati”, che passeggiano “lungo / i viali del Pincio” e “son soli nell’universo” (p.19), il “soldato di leva, / in libera uscita”, che “legge la lettera / della fidanzata” e “non sa più / cosa fare fino a sera” (ivi), le “7 ballerine 7” dell’Ambra Jovinelli, che “han voglia di piangere, / invece di sorridere” (p. 26). Qui ritorna l’attenzione del poeta per la “povera gente”, per le creature più semplici e indifese, alle quali egli si sente fraternamente legato. Solo attraverso l’amicizia o l’amore è possibile infatti, secondo Tebano, recuperare una dimensione diversa dell’esistenza, “ritrovare / la perduta tenerezza / del mondo…” (p. 25), allontanandosi, sia pure momentaneamente, “da questo nero, folle tempo / che incalza” (p.21).

Questo sentimento di angoscia e di desolazione si fa ancora più acuto nella seconda sezione, Cronaca, dove irrompono i segni violenti del mondo d’oggi: il terrorismo,la morte in carcere, il suicidio per le strade. E sono fatti che avvengono il più delle volte, nella grande città, tra l’indifferenza generale, “come niente fosse accaduto” (p. 32), talmente abituati si è ormai ad essi da non farci più caso.

La terza sezione, Via Margutta, si contrappone nettamente alle altre due. Nella celebre strada dove abita, infatti, Tebano sembra ritagliarsi una ‘fetta’, se così si può dire, del “paese del suo cuore”, la lontana e perduta Taranto. Di essa egli conosce ormai ogni segreto, i personaggi, famosi e non, che la abitano, e perfino gli animali, i cani e i gatti, i cui latrati e miagolii costituiscono l’abituale sottofondo sonoro dei giorni e delle notti in via Margutta. Ritornano alla mente, a questo proposito, altre famose ‘strade’ della poesia contemporanea: le vie triestine di Umberto Saba e la leccese Via De Angelis di Bodini. Ma anche questo microcosmo di serenità non è più quello di un tempo e c’è, nei versi di Tebano, come una vena di nostalgia e di rimpianto, che affiora di continuo:

C’era una volta via Margutta,

che sembrava, ogni giorno,

una domenica di festa.

Le parole, sulle labbra

della gente, sapevano

d’allegria. I loro occhi

sprizzavano colori come

la tavolozza d’un pittore.

[…]

(C’era una volta, p. 37),

Non ci è più consentito


la notte, aprire la porta


ai sogni. Fosse almeno


il pigolare dei passeri


nei nidi o il tubare

dei colombi nelle grondaie

a tenerci svegli,

in un dolce dormiveglia.

No, invece dalla sera

al mattino, è l’ossessivo

abbaiare di due cani

a trasformare via Margutta

in un’aperta notturna campagna,

quando i ladri di galline          

scuotono il sonno dei cani

di guardia ai casolari.

(Non ci è più consentito, p. 39)

L’altro volumetto, che raccoglie poesie composte dal 1961 al ‘79, testimonia della lunga fedeltà di Tebano alla figura e all’opera di Franco Gentilini, del quale è stato collaboratore per tanti anni. Ma queste poesie non sono, né vogliono essere, un semplice commento, una mera descrizione verbale dei dipinti del maestro faentino. Allo scrittore interessa soprattutto ricreare, con gli strumenti specifici del linguaggio poetico, la loro inconfondibile atmosfera. E bisogna dire che questa operazione quasi sempre gli riesce, anche perché sembra che esista una congenialità di fondo tra il mondo sospeso e incantato del pittore e quello del poeta, attratto irresistibilmente da quelle magiche e fiabesche visioni. Si legga, ad esempio, questa Ipotesi di poesia numero uno sui giardini incantati, basata sulla pura elencazione di oggetti, un po’ alla maniera di Govoni, maestro riconosciuto dell’invenzione analogica novecentesca:

Alberi come creature

di un universo sognato.

L’uccello della pioggia

s’è nascosto a metà

nell’armadio liberty.

Una luna metafisica

penzola dal cielo

come una lampadina.

Un vento bianco,

un silenzio musicale.

Il volo di una farfalla.

Un girasole guarda

verso la notte.

Oggetti sparsi,

qua e là,

come reperti d’archeologia.

I fantasmi etruschi

passeggiano a coppia

nei giardini incantati.

(p. 19)

D’altronde, in questa raccolta, numerose son analogie, che compaiono spesso sotto forma di ‘immagini di serra calda’, cioè con lo pseudo complemento preposizionale usato al posto dell’aggettivo, caratterizzate da uno spiccato gusto coloristico: “sguardo d’ametista”, mani di lapisluzzoli”, “labbra di corallo”, “casa di cornice” (p.9), “terrazza del cielo” (p.11), “sorriso d’alabastro” (p.15), “laghi delle nuvole” (p. 21), “doccia di rugiada”, “cielo di melograno” (p. 27), “occhi di cristallo” (p. 47).

La mediazione pittorica consente insomma a Tebano di liberarsi dai pesanti condizionamenti descrittivi e cronachistici e di tendere invece in direzione di una trasfigurazione fantastica del reale, in sintonia con i dipinti di Gentilini, dai quali trae ispirazione. Ed è su questo versante, contrassegnato da un’accentuata tensione inventiva e da maggiore elaborazione formale che egli raggiunge, a nostro avviso, i risultati più convincenti della sua ultima produzione poetica.

[«Contributi», 1, marzo 1985; poi in A. L. Giannone, Le scritture del testo, Lecce, Milella, 2004]

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