Prefazione a L’isola e il leone (1984)

Anzi, si può dire che per Gallipoli non ci fu mai coincidenza più felice e fortunata. Il 16 maggio 1984 infatti ricorrerà il cinquecentesimo anniversario della strenua ed epica difesa sostenuta dalla città nei confronti dei Veneziani comandati dall’Ammiraglio Giacomo Marcello: una pagina gloriosa e stimolante che fa pensare, sia pure in maniera più modesta e in diverso contesto, alla quasi coeva pagina scritta dalla vicina cittadina di Otranto con il sangue dei suoi ottocento martiri (1480) contro l’invasore della Mezza Luna.

Al lettore, quindi, anticiperei l’ipotesi che “ questo non è un libro come gli altri: chi volta le sue pagine tocca una città viva nella sua bellezza, nei sogni e nella storia” (W. Whitman) e all’autore dedicherei come, come augurio, gli ispirati versi di Tagore;

“Quando mi sfiorano le Tue

mani immortali

questo piccolo cuore si perde

in una gioia senza confini

e canto melodie ineffabili.

Su queste piccole mani

Scendono i Tuoi doni infiniti.

Passano le età, e Tu continui a versare

e ancora c’è spazio da riempire”

2.Sfondo storico della vicenda dell’Isola e il leone

Alla fine del sec. XV la città di Gallipoli, fedele agli  Aragonesi, che avevano surrogato a Napoli la dinastia angioina, divenne padrona incontrastata del mare Jonio. Spalleggiata e confortata dalle loro molte e segnalate agevolazioni, basti pensare al suo stemma comunale ( il gallo con la scritta : Fideliter excubat, da qualcuno tradotta, con un pizzico di furbizia, aggiungendo il dativo “hospitibus”: Fedelmente vigila in favore degli ospiti e/o amici), la sua potenza marinara e gli attivi commerci, da tempo intrapresi con le terre di Levante, suscitarono le invidie e le preoccupazioni della Serenissima Repubblica di Venezia, che, con occhio vigil, spiava il momento propizio per impadronirsi della concorrente. E ciò avvenne in occasione del conflitto tra la Repubblica e il re di Napoli, Ferdinando. Infatti, nel maggio del 1484, comparve nello specchio della rada gallipolina la flotta veneziana di 70 legni comandata da Giacomo Marcello. I gallipolini si difesero strenuamente con tutte le forze (con episodi di valore anche da parte di donne, vecchi e bambini), e dalle loro mura, contrassegnate da 12 torri o fortezze ( rivellini) risposero adeguatamente ai ripetuti attacchi delle navi nemiche; dopo tre giorni di aspra ostilità, uccisero con un colpo di colubrina il generale Marcello, la morte del quale, per non gettare scompiglio nelle ciurme veneziane, fu celata durante l’ultimo decisivo combattimento , dal suo segretario Alvise Saguntino. Il comando militare passò così nelle mani di Domenico Malipiero che il 19 maggio1484 condusse a termine l’impresa.

3.”La poesia è un mistero che si presenta con un fiore in mano” *

Augusto Benemeglio si presenta per la seconda volta al grande pubblico con un fiore in mano. La sua arte e il suo cuore ci donano generosamente il profumo del mare in ogni pagina. Ma in sostanza qual è l’intreccio della. La trama, il filo conduttore di questo libro?

Diciamo prima ciò che non è: non è un libro di storia, né un romanzo d’avventura, né la cronaca di un dramma, né soltanto l’epopea di una città che, raggomitolandosi dentro se stessa, resiste contro il nemico, né un libro d’evasione fantastica. E’ forse un po’ di questo e d’altro. Essenzialmente si può definire un libro di squisita poesia: partendo da un nucleo storico, criticamente indiscusso, scava nella realtà dei vari personaggi, amici e nemici, ne sposa la causa e gli ideali, e si commuove  e canta e piange, sospira ,  prega, crolla, si dispera. Il tutto incastonato in un’ampia cornice di mare e d’azzurro tra bizzarria di venti e colori, di favola e sogno, tra guerra e pace, amore e odio, storia e leggenda, visione, trasposizione, incanto, immedesimazioni. Vi è un crescendo di vicende e di contrastanti “ragioni di Stato” che coinvolgono il lettore fino a creargli quella suspence, quella tensione necessaria che, magicamente, si traduce in purificazione interiore

Il movimento dialettico dei due blocchi, il veneziano e il gallipolino, l’uno che attacca e l’altro che si  difende, procede a giri concentrici: dai capi ai consiglieri, da questi ai militi, dai militi allo spaccato dei ricordi teneri e familiari. E’ insomma l’intera città di Gallipoli, l’isola, che nello sforzo supremo di difendersi dalla zampata del ”leone”, chiama a raccolta il cielo e  la terra, i vivi e i morti, il passato e il presente, la bellezza, il valore, il coraggio, l’ardore di tutti i suoi figli, giovani , vecchi, donne e bambini.  

Di tutti è scavato e approfondito il gioco dei ricordi, l’ingenuità, la furbizia, la fantasia, come pure è scandita la psicologia, il rimpianto, la nostalgia. C’ è infine un mantello di pietà e di smarrimento che si apre per accomunare  vincitori e vinti, vivi e morti, uomini e donne, capi e subalterni , giovani e anziani, passato e presente, storia e attualità.

L’accorgimento letterario della prima pagina ci porge la chiave per interpretare lo scenario di tre giornate intense e piene di vicende e di colpi di scena: il “flash back” dell’Ammiraglio Giacomo Marcello che ridotto ad un “tessuto di stoffe e di carne senza più volontà” e colpito mortalmente ripercorre l’arco delle tre giornate e ce le fa rivivere appassionatamente. Sono così coinvolte “queste ombre lunghe del nostro breve corpo” (V. Cardarelli), perché – direbbe F. Nietzsche – “gli occhi grigi dello sguardo freddo non sanno riconoscere i valori delle cose” e “una verità non riscaldata dal cuore è una verità tradita” (J. Sullivan), perché “non tocca la mia esistenza” ( S. Kierkegaard).

L’isola e il Leone invece ad ogni pagina tocca noi gallipolini nel vivo della nostra umanità che è insieme storia, folklore, cultura , religiosità, tradizione, poesia e – si spera – toccherà nel profondo il lettore veneziano e qualunque altra persona che aprirà il volumetto “dum suadent cadentia sidera somnos” e si accorgerà, come è accaduto a me, che non lo chiuderà senza prima averlo percorso avidamente fino all’ultima pagina, prima soggiogato dalla curiosità, poi dal  gusto che, secondo le diverse sensibilità, diventerà interesse, partecipazione, ammirazione, stupore, sogno, sbigottimento interiore per diventare crogiolo di luce, miracolo, trasfigurazione di poesia.

Per fare un prato/ ci vogliono un trifoglio e un’ape,/ un trifoglio, un’ape e un sogno./ Ma basta il sogno/ se le api sono poche”. ( Emily  Dickinson)

L’autore ama Gallipoli, ne è entusiasta, innamorato, di ogni suo torrione, di ogni sua casa, di ogni suo monumento, di ogni angolo, di ogni nuvola del suo cielo, di ogni brusio e alito di vento, di ogni colore riflesso sul suo mare. Basta una scintilla d’amore per procurare un incendio. Ben a ragione sostiene un noto botanico – G. Washington Carver – “qualunque cosa di rivelerà i suoi segreti, se l’amerai abbastanza”.

Il poeta è uno che ama e canta, ama e soffre, ama e vagheggia, ama, senza stancarsi mai, tutto: la natura, gli elementi, gli uomini, le cose grandi e, soprattutto, quelle più umili e trasandate. Lo ricorda Platone nel noto dialogo “Jone” sull’ispirazione poetica: “Il poeta è una cosa leggera, sacra, alata, e a niente egli è buono, se innanzi non è ispirato dalla divinità e non è in furore: lo stesso Dio parla a noi per bocca sua. ”

A questo punto, come di rito, dovrei passare a qualche esemplificazione e indicare, sia pure per cenni, i passi più suggestivi e significativi del volume. Farò del mio meglio non senza prima sgomberare il campo da qualche ombra di malinteso che potrebbe stare inconsciamente in agguato e pesare su quanti, come il nostro autore, si cimentano con argomenti, fatti e personaggi forniti dalla storia.

  • (G. Rossi, “Calma di luglio”, Mondadori, Milano 1973)

3.Storia e poesia : un binomio stimolante. 

E’ stato scritto in un recente romanzo che “nei momenti decisivi della vita si approda nella propria terra d’origine” (R. Mazzone, Eneide, Palermo, 1983). La storia nostra, delle persone, delle città, delle nazioni o dei popoli, è qualcosa di vivo che lambisce le sponde della memoria e, in quanto tale, può creare giochi di riflessi, proiezioni di fantasia. “La storia cresce come un albero vivo – precisa A. Solgenitsyn in “Agosto 1914” – oppure, se volete, “la storia è un fiume, ha leggi proprie di correnti, di anse, di mulinelli. Il legame delle generazioni, dei costumi, questo è il nesso delle correnti”. Benemeglio ci ha immessi in un tratto di questo nostro secolare fiume di storia ma lo ha fatto – è bene ricordarlo ancora – non da storico, ma da poeta. E’ questa la novità. “Quando la scienza e la storia in particolare avrà messo tutto in ordine, toccherà ai poeti mischiare daccapo le carte” Lo sosteneva, col piglio che gli era proprio, l’illustre Ennio Flaiano. Sulla stessa linea si pone Joyce, quando scrive: “ La storia è un incubo dal quale cerco di risvegliarmi”, sino alla recentissima voce di A. Bonazzi che non si stanca di ripetere: “Il poeta è lo storico più rigoroso”. Tesi azzardata, dirà qualcuno. E allora risponde per tutti il sommo maestro Aristotele, quando puntualmente chiarisce la questione così:”…E infatti lo storico e il poeta non si distinguono perché l’uno si esprime in versi , l’altro in prosa…ma storico e poeta sono diversi perché il primo rappresenta fatti effettivamente accaduti, il secondo cose quali potrebbero accadere. E perciò la poesia è più filosofica e più elevata della storia, perché la poesia esprime piuttosto l’universale, la storia il particolare” ( Aristotele, Poetica IX, 1451). “Nella poesia infatti– conclude – bisogna preferire l’impossibile che riesce persuasivo al possibile che persuade”.

Nondimeno alla luce della cruda realtà dei nostri giorni si può anche dubitare dell’antico adagio ciceroniano, che intende la “historia” come “magistra vitae”. Brecht conserva negli occhi gli eccidi dei campi di concentramento nazisti, quando, con intuizione presaga prima annota: “Dalle biblioteche escono i massacratori. Stringendo a sé i figli stanno le madri e scrutano atterrite nel cielo le scoperte dei sapienti”, e aggiunge: “Chi ha scritto viva la libertà è già caduto.”

Nelle ultime pagine dell’Isola e il leone compaiono donne gallipoline, madri che “ correvano a difendere i bastioni dell’isola e avevano un bambino in braccio dalla parte del cuoree una pietra nera nella mano libera…e una preghiera nel petto”. Le guidano quattro sorelle “che avevano sciolto il loro sangue per farne olio bollente”. E questo è solo un esempio, tra i tanti, di storia trasfigurata in poesia. Sì, storia e poesia: un binomio stimolante, appunto, quando la penna è guidata da un cuore che “ciò che ditta dentro va significando” (Dante).

4. Qualche scaglia di luce.

Mi accorgo che anche la mia penna è scivolata veloce sulle pagine bianche, sospinta da un certo coinvolgimento interiore. E allora, prima di tirare i remi in barca, mi sia permessa qualche altra piccola incursione nelle pagine del volume, che talvolta abbaglia con i riflessi del mare e il luccichio delle armi, talaltra conquista con le risonanze , le sintonie e le affinità che provoca.

“Dentro di noi è ogni cosa”, canta pudicamente il romantico Holderlin. Gli fa eco il conterraneo Novalis: “L’eternità con i suoi mondi, il passato e il futuro , è dentro di noi o in nessun luogo”.

Anche noi,  lettori di oggi, come quei legni “più leggeri di un sughero/abbiamo danzato sui flutti” (Rimbaud). E ci scorgiamo naufraghi, rapsodi d’infinito: “Et nous allons, suivant le rytme/ de la lame/ bercant notre infini/ sur le fin des mers” ( Ch. Baudelaire)

Ci risulta che una certa storiografia nostrana più o meno campanilistica ha presentato il Comandante Giacomo Marcello come un aggressore, un rude guerriero, un vile. L’autore, inabissandosi come un palombaro, nel mistero della sua anima nel preciso momento in cui tutta la vita trema sul filo di un respiro affannoso che, pian piano, da singhiozzo si trasforma in rantolo di morte, sembra volerci ripetere che “ Vile, veramente vile, è solo chi ha paura dei suoi ricordi”( Elias Canetti).

E noi entriamo nel vortice dei suoi ricordi, accesi o sfocati, tenui e forti, teneri e personali con fini squisitamente militari: “Perché morire qui a Gallipoli senza amore né gloria?”. Toccante poi il suo delirio e il colloquio con i fantasmi. Sembra di leggere un verso delicatissimo della poetessa russa Anna Achmatova: “Là, dietro il filo spinato, conducono all’interrogatorio la mia ombra”.

Che dire poi degli altri personaggi che si ramificano e popolano le varie vicende? Alcuni sono sbalzati con tratti semplici ed efficaci, altri appena accennati: basti pensare all’uomo dalle tre aste, al mercante cieco, al frate buffone, al Santachiera, al Sindaco, al Luogotenente Malipiero, al Seguntino, al Vescovo, al re-pescatore, al Rovesciaboccale, all’uomo dalla memoria ferita – che è poi lo stesso Giacomo Marcello trasmutato nel sogno; e poi all’olocausto dei dodici giovani di Gallipoli e delle quattro fanciulle , e alla tante altre figure che compaiono per qualche momento e poi cadono nel fervore della battaglia. Guizzi, lampi di luce, parole smozzicate, lamenti di feriti, cori e stelle filanti di litanie e preghiere. Anche la toponomastica è rispettata: sia quella circoscritta nell’ambito delle mura, con i nomi dei vari torrioni e fortezze, sia quella dei dintorni (la rada dei Sàmari, attuale località “Li Foggi”) . Il tutto però è sempre avvolto da un afflato lirico e da una spiccata padronanza dei mezzi espressivi che operano su scala vastissima e mobilissima e su tavolozze di colori sempre abilmente cangianti, dosati, controllati,

La morte del comandante veneziano è resa così umanamente patetica da indurre la memoria a collegarsi con un’altra morte famosa, immortalata dal poeta persiano Run: “ Il re del pensiero senz’ombre/danzando se ne è andato verso l’altro paese/il paese della luce”. In lui “ culla e sepolcro in un istante si congiunsero”(Calderon de la Barca).

Come non accennare poi a certe considerazioni gnomiche e cadenze volutamente ripetute da parte di cori che con i loro spasimi commentano e approfondiscono la vis drammatica o le varie situazioni? Valga per tutti la trasfigurazione fantastica del lamento funebre per il re pescatore: dalla cantilena di lamenti e di dolore espressa dalle donne si passa rapidamente al gemito del mare:

”Il re-pescatore è morto”

“Ardono i ceri sacri delle nubi”

“Il re-pescatore è morto”

“Gridano le radici della terra”

“Il re-pescatore è morto”

“Piangono le rocce, gemono le onde”.

Da notare anche lo squarcio, intensamente emotivo, che gioca nella contrapposizione del “Dormi dormi dormi” e “apri gli occhi.Svegliati”, che si tende per più di un paio di pagine.

“Apri gli occhi, svegliati. I tuoi vestiti drappi preziosi di porpora e seta. Gli occhi tuoi son fonti vive…Apri gli occhi! Svegliati!…Dormi dormi dormi! Morrai senza sposa accanto e senza figli…Apri gli occhi. Svegliati!…Dormi dormi dormi”.

Le pagine però dove, a mio parere, l’arte della descrizione fascinosa e della rievocazione partecipativa tocca il culmine sono quelle dedicate sia alla città sentita come un organismo vivo e palpitante e al mare suo degno specchio e contrappunto, sia alle invocazioni e preghiere corali che zampillano, spesso all’unisono, insieme alle voci e ai bisbigli stessi della natura. Esse s’innalzano ora alla Madonna lanciatrice, ora alla Vergine dei Sàmari, ora alle Vergini patrone e protettrici della città come Sant’Agata e Santa Cristina.

“Questa spiaggia è sacra perché da sempre l’uomo vi celebra il rito del mistero della vita e riscopre la meraviglia di sentirsi vivo”.

Notevole anche per intensità di suggestione evocativa la preghiera delle donne: “Va via, va via, Signora Morte. Non ci sono bambini dai visi azzurri. Non ci sono bambini coi capelli gialli. Va via, va via, Signora Morte. Hai già cavalcato questi sentieri con spade, coltelli e peste nera. Hai già preso tutti i bambini. Va via, va via, Signora Morte”

Altrettanto pittoresca e commossa la prima apparizione di Gallipoli e le altre disseminate qua e là: “:..Da lontano era come un prisma di rose che proiettava la sua luce in tutte le direzioni…” “L’ammiraglio guardava l’isola, che s’apriva come una rosa bianca, in silenzio, in quell’alba così quieta e perfetta che celava sotto la veste coltelli di sangue…” “…bellezza racchiusa in una clessidra misteriosa…”  .   

Descrizioni e richiami che suscitano echi di poesia e fanno pensare a Garcia Lorca, Hemingway, Pound, Dos Passos, Montale e altri. Un poeta contemporaneo, Macedonio Fernandez, recentemente si è lasciato sfuggire un segreto: “ Non so – ha detto – se scrivo e medito da sveglio o se medito ma sognando scrivo” 

Può essere accaduto anche al nostro narratore-poeta. La poesia fornisce sempre, anche ai più distratti, un supplemento d’anima. Lo avverte perfino un noto maestro psicanalista, il prof. Franco Fornari che, nel suo recente saggio, “Psicoanalisi della musica”(Longanesi, 1983), dichiara: “L’uomo può perdere la musica se perde l’anima, ma non perderà mai l’anima se conserverà la musica”. Gli fanno eco i versi di un altro illustre veggente latino-americano, J.L. Borges: “Ver (=vedere) en la muerte el sueno/ en el ocaso un triste oro,/ tal es la poesia/ que es immortal y pobre(povera)/ La poesia vuelve/ come la aurora y el ocaso”

E proprio nel pomeriggio del terzo giorno la vicenda si conclude con un tocco davvero alato che supera la dialettica sia dei vincitori che dei vinti. Chi sembra aver vinto muore; chi invece, per le sorti della battaglia, sembra soccombere, sopravvive e può riprendere a operare e sperare.

“Alle cinque s’apriranno le ali del leone,

taglieranno le lame delle spade.

Alle cinque verrà il trionfo.

Ma non per te, ma non per te.

Per te si ferma il mare

Per te si ferma il cielo

Per te si ferma la battaglia”.

E qui il cerchio si chiude, collegandosi alle “rive affondate dalle profezie”, come è scritto sul frontespizio. Vince il silenzio, perché, per i posteri, saranno “ le pietre ad avere l’anima, le voci di pietre d’oro”.

Qualcuno magari si aspettava una conclusione più incisiva, e spettacolare, in chiave di potenza e distruzione vendicativa, come ci narrano alcuni storici locali ( v. “Memorie Historiche di Gallipoli” di Bartolomeo Ravenna  e il “Libro Rosso”). Invece no. La storia non cambia. Ma per il poeta tutte le vicende umane, anche le più drammatiche, sono portate via dall’onda dell’oblio. Saranno le pietre che parleranno al cuore dei posteri e racconteranno le loro bizzarre storie “di sangue e d’anarchia”. E ciò secondo la visione alata del poeta di Zante:  “Finché  il sole   risplenderà sulle sciagure umane “( Foscolo, I Sepolcri)

A noi rimane un’ultima considerazione sulla personalità dell’autore e il suo stile. Per lo stile, si può accettare e condividere una dichiarazione di Claudio Magris, quando sostiene : “ Lo stile è una maniera assoluta di vedere le cose nella loro essenza, è il modo di ritrovare la vita, il suo senso struggente e segreto che balena solo al di là delle effusioni sentimentali, delle acrobazie  intellettuali e degli svolazzi estetizzanti”(C. Magris, Itaca e altre , Garzanti, 1982) .     

E’ lo stile che in una parola diventa l’uomo. E in esso si svela così il nostro poeta-marinaio. C’è infine un messaggio da non eludere. Ed è il messaggio della pace, della fratellanza, della tolleranza tra i popoli e tra le fazioni o partiti di una città, di uno Stato e oltre. Esso è sotteso nell’epilogo stesso che accomuna i vinti di ambedue i blocchi: in una battaglia, in una guerra o – più attualmente – in un braccio di ferro (atomico) non ci sarebbero vincitori, ma soltanto perdenti. Lo cantano i giovani della nostra vicenda e lo ripetono i giovani di tutte le generazioni, soprattutto a quelli di oggi: su di essi incombe infatti la catastrofe del nucleare cui si aggiunge il pericolo che si tolga loro anche la speranza del The day after… 

Ecco – nell’epilogo – cosa scandiscono i giovani di Gallipoli o i giovani tout-court contro i “veneziani di sempre”: quelli cioè che aggrediscono in nome di una pseudo potenza, giustizia o sicurezza o ragion di stato.

“Avranno lance più dure, cannoni più crudeli, grida più feroci. Ci assaliranno da tutte le parti. Dovremo resistere o morire. Morire combattendo significa sfidare la morte, continuare a vivere”

“Perché morire?” – dissero i ragazzi…

“Noi vogliamo vivere. E’ bello risvegliarsi al mattino e scoprire che sei vivo. Vogliamo rivedere il mare il sole le strade gli uccelli”“E’ bello giocare e ridere, ridere e giocare.”

“Vogliamo rivedere ragazze con le bocche di melograno”

“Le ragazze di Gallipoli con le gole rosa, i denti di fiumi d’avorio, i capelli di cieli notturni, i capelli intrecciati d’ulivi”

“Noi vogliamo vivere!…”

Dopo tre giorni di intricate e drammatiche vicende guerresche spunta inaspettatamente un canto di vita e di pace. ” Solo la poesia può operare simili rivolgimenti. Vi è un’eco che si tramuta in avvertimento anche per i potenti di turno: “Si calmi. Dove vuole andare?/ Un punto è assodato./ Lei non potrà arrivare, /mi creda, dove è già arrivato” ( Giorgio Caproni)  

E’ la fine di un’eco di pace appartiene sempre al poeta , in ogni epoca. Per esempio questa: “Se non dovessi tornare/ sappiate che non sono mai/ partito/Il mio viaggiare/è stato tutto un restare/qua, dove non fui mai.( Caproni, Il Franco Cacciatore, Garzanti,1983)

E’ diventata anche per me la firma invisibile che ho intravisto in calce a “L’isola e il leone” dietro quella dell’autore. Con lui auguro a tutti buona lettura. Come per dire: senza un convinto sì al proprio passato, non sorge speranza per il futuro…

“Il più bello di tutti i mari

è quello dove ancora non si è andati.

Le più belle di tutte le nostre giornate

 non le abbiamo ancora vissute

Il più bello di  tutti i bambini

non è ancora cresciuto.

E ciò che vorrei dirti di più bello

 non l’ho ancora detto”.

( Nazim Hikmet)

Gallipoli, febbraio 1984                        

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