Non molto diverse sono le esperienze lavorative del protagonista di Motel Nuvolari, un altro salentino che fa l’insegnante in quel di Verona, in un ambiente ostile, senza essersi mai riuscito realmente a integrare, con la nostalgia per la sua terra e i suoi amici, anch’essi emigrati (“Una diaspora a catena”, p. 157), ma con la certezza di tornare prima o poi: “Io mo’ son certo che torneremo tutti. Lo dice Terry pure. — Qua vi tocca sì che torno, ragazza, torniamo Porfi e io, continueremo negli anni a fare gli ambientalisti gli incontri con l’autore i concerti per la pace, ma poi davvero, davvero dico chi ce lo fa fare?” (p. 159).
È il caso di Teresa, la protagonista appunto del racconto che dà il titolo al libro, la quale lavora in uno studio legale in provincia di Modena senza grandi soddisfazioni ma in uno stato perenne di disagio, di malumore, tra litigi vari con le sue opprimenti coinquiline, inquietanti incontri con strani personaggi e frequenti scontri con l’avvocato-capo. Tanto è vero che decide di lasciare tutto e tornarsene nel suo paese, nel Sud: “Me ne vado. Sta mi ndi vò, amici. Torno giù, vado al mare, mi prendo il sole ché ormai sembro ‘na malata terminale a furia di vivere con quelle due diaulone che mi succhiano l’intrame. E poi: chi s’è visto s’è visto” (p. 119).
Ma ovviamente, come s’è detto, nella vita di questi giovani c’è posto anche per il divertimento, le scorribande gli amorazzi, il “cazzeggio”. Ecco allora, in Pifferi, la storia di un corteggiamento tra Redingote, grafico pubblicitario multimediale e musicista, e una scatenata “pischerla”, che s’intreccia con la preparazione di un concerto, organizzato in una marina del Salento per beneficenza. Qui resta impressa la provocazione finale del gruppo musicale Redingote e dei suoi compagni, che si rifiutano di eseguire valzer e polche richiesti dall’organizzatore e attaccano improvvisamente “colla world music contaminata di Te di là di punk-raeggae-hardcore-metal-soul-rockabbily-blues-ska-eltonjohn” (p. 25).
In Della volta che arrivò il Gran Pallido, invece, è narrata la contestazione del solito gruppo di amici al comizio di un politico-critico d’arte, facilmente riconoscibile, con l’esilarante descrizione delle furibonde reazioni quest’ultimo, che lancia una serie di insulti all’indirizzo dei manifestanti. Mentre, in Jamboree, è descritta la visita a uno strano tipo che, dopo svariate esperienze di vita di lavoro, attraversa una fase mistica e si dedica a complicati rituali come la preparazione e la degustazione tè e la divinazione con le monetine cinesi, secondo appunto certe mode che si affermano contemporaneamente in varie parti del mondo.
Ma uno dei racconti, a mio avviso, più riusciti, è Runnin’ off the rails, una sorta di vivacissimo on the road salentino, che narra di un megaraduno, a cui si recano tre amici seguendo una troupe di artisti incontrati nel capoluogo, attraverso un frenetico peregrinare per le strade della provincia. E qui spicca la descrizione di una realtà in movimento, dove il nuovo si mescola, spesso in maniera stridente, al vecchio: “.., sbruma pandino nostro bello per stradette mezz’asfaltate e mezze fanghigliose, attraverso madonnine innalzate su altari fosforescenti e tappezzati di conchiglie giganti, e per dimenticate chiesette all’uncinetto nel bel mezzo di ulivi ulivi, e terra rossa e muretti a secco di petre di tufu, via col ritmo che incalza a ‘mmienzu a bande di cani neri, per villetti integolati e belle bianchissime case gentilizie tutte infronzolate di pietra leccese passando pure per case del mobile, concessionarie d’auto nipponiche, e ‘na bella piazza tutta lastricata di granito …” (p. 60).
Meno convincente è invece Ultraviolet, che non va al di là di una dimensione bozzettistica, in quanto tutto si limita alla delineazione di alcuni personaggi incontrati dall’io narrante in una sala d’attesa di uno studio medico.
Escono fuori dagli schemi consueti Mpà Gino a Natale e Gigi. Il primo rievoca un movimentato episodio dell’infanzia del “compare” Gino, durante un affollato cenone di Natale, con l’indiavolato agitarsi dei ragazzini (gli “agnuni”), e il gesto finale del piccolo protagonista, il quale, svegliandosi di colpo, scaglia lontano involontariamente la statuina di Gesù bambino che era stato invitato a baciare.
Spostato più indietro nel tempo è l’ultimo racconto, Gigi, che vuole offrire uno squarcio sulle condizioni di vita del Salento nel recente passato, quasi per metterle a confronto con quelle attuali. Qui, attraverso la storia di un contadino (un “furesu”) raggirato, alla stazione di Lecce, da un “signuru”, che gli chiede in prestito dei soldi per saldare un debito, dandogli in pegno un orologio d’oro a cipolla rivelatosi poi falso, s’intende fare riferimento forse a una situazione di sopraffazione e di rigidi contrasti sociali esistente nei paesi salentini fino a non molto tempo addietro.
Anche la lingua usata da Romano riflette, per così dire, questa visione del Salento in cambiamento, considerato non più nella sua separatezza e marginalità, ma in costante rapporto con il resto della nazione e del mondo, com’è normale in un’epoca di globalizzazione. Da un lato quindi l’uso assai frequente del dialetto locale, che lega i protagonisti dei racconti a una precisa realtà geografica; dall’altro la presenza di elementi unitari e sovranazionali, che stanno a indicare invece l’appartenenza a un più vasto universo giovanile.
Ecco allora i numerosi internazionalismi (soprattutto anglicismi), il linguaggio dei giovani (“scherla”, “cazzeggiare”, “sbrummare”, “crucco”, “pogare”, ecc.), l’italiano colloquiale, informale, gergale, con il lessico sessuale e le deformazioni giocose (il “pandino”, il “cigaro”, i “caramba”, ecc.), le forme irradiate dalla pubblicità, dai mass-media, dall’informatica. Non mancano , nemmeno, in questo sorprendente pastiche, citazioni dotte e latinismi (“thema disputandum”, “scientiae”,“frigido pacatoque animo”, “urbi et orbi”). Insomma una contaminazione di globalismo e localismo, una sorta di “glocal” linguistico, se così si può dire, che costituisce la nota più caratterizzante e originale, dal lato espressivo, della narrativa di Romano.
[«L’immaginazione», a. XVIII, n. 180, settembre-ottobre 2001, pp. 21-23; poi in A. L. Giannone, Le scritture del testo, Lecce, Milella, 2004]